All’annuncio dell’armistizio, l’esercito italiano resta senza ordini e molti sono anche i bergamaschi che si trovano disorientati, in caserme lontane da casa perché erano stati richiamati alle armi.
Varrà la pena notare che nella guerra 1940-1943 l’Italia non sperimenta un fenomeno caratteristico della sua storia, ovverosia i “volontari di guerra”. Anzi, pur se per decenni l’Italia fascista aveva preparato il popolo alla guerra, cercando di rilanciare su basi sempre nuove la mobilitazione nazionale e rendendo permanente l’eccitazione al conflitto, il fenomeno del volontariato non si ripete.
Alla data dell’8 settembre 1943, molti militari hanno alle spalle la fatica di anni di guerra; molti altri, che hanno iniziato il loro servizio militare durante la guerra e proprio in quella guerra di conquista, ruberie e violenza che è quella combattuta dall’Italia a fianco della Germania nazista dal 1940 al 1943, maturano quel rifiuto per la guerra che è radice di un personale antifascismo.
È di questi Rimero Chiodi: inizia il servizio militare nel luglio 1941, al corso allievi ufficiali di Bra, in Artiglieria, ed è inviato come tenente con le truppe di occupazione in Jugoslavia: “ i tedeschi, e anche gli italiani, si può dire, o rubavano o bruciavano i raccolti …il frumento…era un delitto…bruciavano i paesi addirittura…lì c’erano case di legno…cose incredibili che si sono viste fare anche contro la popolazione”.
Quando le truppe tedesche, seguendo ordini precisi e arrivati tempestivamente, occupano il territorio nazionale e quelli occupati dall’esercito Italiano, si portano innanzitutto nelle caserme facendo prigionieri i soldati.
Chiodi apprende dell’armistizio dalla radio e la reazione è di scappare insieme ai suoi uomini: “volevamo venire a casa”. Dopo alcuni scontri con i tedeschi, Chiodi e i suoi arrivano a Dubrovnik con l’obiettivo di imbarcarsi per l’Italia, ma sono fatti prigionieri.
Con un viaggio faticoso e precario, in parte a piedi o su carri bestiame, Chiodi come più di 650.000 militari italiani è trasferito in campi di raccolta in Germania. Per questi militari, il Reich conia il termine di Internati Militari Italiani, termine poi ripreso dalla Repubblica Sociale Italiana: con tale definizione si designano i prigionieri militari di un paese alleato, per sottolineare il carattere non solo militare, ma anche politico della loro prigionia ed escluderli dai diritti garantiti ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra.
Tedeschi e nazisti cercano con insistenza di indurre questi soldati a combattere di nuovo per la guerra nazifascita, ma lamaggior parte dei militari si rifiuta e, nonostante la propaganda e la promessa di poter tornare in Italia, all’adesione alla Repubblica sociale italiana o al Reich e all’arruolamento nei loro eserciti preferisce l’internamento. Le ragioni della scelta sono molteplici e dipendono dai percorsi individuali, ma si calcola che solo un 10% aderisce alla proposta. Il rifiuto delle maggioranza è certo da considerarsi il primo atto di resistenza, il primo no collettivo e compatto alla Germania nazista e al suo alleato fascista.
Gli ufficiali sono rinchiusi negli Oflager e la loro adesione cercata con insistenza. Alla truppa, a cui erano destinati gli Stammlager, l’invito all’adesione è di norma sollecitato una sola volta e, dopo il rifiuto, i soldati sono impiegati come manodopera gratuita per il Reich.
Chiodi non solo rifiuta di aderire, ma con ostinazione rifiuta di lavorare per non collaborare con il Reich. Dal campo di Wietzendorf inizia per lui una lunga peregrinazione nei campi fino alla sua liberazione da parte degli Americani nel campo di Fullen.
Nel corso degli anni Ottanta l’Isrec conduce una ricerca sull’internamento dei militari bergamaschi in Germania che lo porta a costituire un importante archivio di testimonianze orali e alla pubblicazione di Prigionieri in Germania, a cura di A. Bendotti, G. Bertacchi, M. Pelliccioli, E. Valtulina. In questo progetto Rimero Chiodi è stato intervistato nella sua casa di via Botta 11.