Angiola Piccinelli non ha ancora vent’anni quando si lancia con convinzione nell’organizzazione della Resistenza. Nata a Bergamo il 5 febbraio 1924, cresciuta in una famiglia antifascista, svolge la professione di impiegata ed è attiva in città fin dall’ottobre 1943, quando è tra le prime a prestare la sua opera per portare assistenza agli ex prigionieri alleati aiutandoli nell’ espatrio, lavorando in stretto collegamento con Mimma Quarti e il Comitato gestito dalle Suore poverelle.
Nel dicembre 1943 è in azione con un gruppo di ufficiali di Marina a Pavia dove il gruppo si presenta con nomi falsi e compie una serie di atti di sabotaggio: qui è arrestata una prima volta e ricondotta il 26 febbraio 1944 a Bergamo per essere interrogata a Casa littoria e poi incarcerata a Sant’Agata.
Rilasciata dopo 8 giorni, è di nuovo in azione: bruciata a Pavia, torna ad agire a Trezzo d’Adda, impegnata nel reperire il rifornimento per le brigate (vestiario, cibo, armi, documenti falsi) e nel preparare i piani per gli aviolanci. Non ha paura di spostarsi e tenere i collegamenti tra i territori dove agiscono le brigate e i centri di comando cittadini. È arrestata un’altra volta a Milano, ma non si tradisce nel lungo interrogatorio ed è nuovamente messa in libertà.
Il 21 luglio 1944, in seguito a denunce arrivate da Pavia, sono arrestati suo fratello e sua madre che viene rinchiusa come ostaggio a Pavia. Angiola si trova ancora una volta lontano da Bergamo, a Selvino e riesce a fuggire e sottrarsi all’arresto. Il 26 luglio 1944, si presenta volontariamente alle SS di Pavia: non ha resistito al violento ricatto dei nazifascisti che hanno arrestato sua madre.
Sottoposta a interrogatori a Pavia, il 10 agosto 1944 è trasferita a San Vittore dove è ripetutamente interrogata sui compagni di lotta. L’8 settembre 1944, insieme al fratello e ai fratelli Roberto e Eugenio Bruni, è trasferita a Bolzano e quindi deportata il 9 ottobre a Ravensbruck, dove è immatricolata con il n. 77352.
La vita del campo, del lavoro che uccide mina il suo corpo, ma forte è la sua consapevolezza di stare anche lì combattendo contro il nazifascismo: trasferita, dopo 4 mesi di lavori all’aperto, al tornio di una fabbrica di aeroplani, sabota il lavoro fatto per la Germania nazista.
È allora di nuovo impiegata all’aperto in lavori di sterro e costruzioni di trincee: il 28 aprile 1945, approfittando della confusione della fine della guerra, si allontana dal cantiere e tenta la fuga insieme ad altri quattro compagni verso la Foresta nera. Aiutata da alcuni connazionali, rivestita di abiti maschili, riesce a raggiungere Kriverc e qui attende l’arrivo dei Russi (3 maggio 1945).
Consegnata agli Americani accetta di lavorare nell’ospedale da campo diretto dagli Inglesi e vi resta fino al 9 settembre 1945, giorno del suo rimpatrio.
Una volta tornata a Bergamo, lascia che la sua esperienza rimanga ricordo personale e solo nel 1989 accetterà di testimoniare per l’Associazione Nazionale ex Deportati (ANED).