Dopo la sconfitta del fascismo, con i RDL n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944 le Leggi per la difesa della razza sono abrogate. L’Italia riprende il suo percorso democratico, anche se una grave cesura si era prodotta segnando nel profondo la società e l’abrogazione legislativa non riesce a cancellarne completamente gli effetti.
I registri depositati presso le anagrafi, quelli dello stato civile e in particolare quelli delle nascite, ne sono rimasti segnati in modo irreparabile: su tali documenti infatti si può per legge aggiungere, ma non cancellare. Segnati con il timbro infamante “di razza ebraica”, sono un lascito altamente simbolico di una violenza che non può essere semplicemente cancellata.
Dopo la Liberazione, per effetto della legislazione antiebraica prima e della deportazione poi, la popolazione ebraica italiana si è complessivamente ridotta di numero e la sua presenza ridimensionata in importanti ambiti della vita sociale e lavorativa.
Una consapevolezza del portato delle Leggi per la difesa della razza non si è mai costruita all’interno della società e della coscienza degli italiani, che hanno preferito tacere per lunghi anni. Va piuttosto ricordato che nell’immediato dopoguerra l’avanzamento professionale e l’arricchimento economico che i persecutori e i loro beneficiari avevano ottenuto tramite la persecuzione e la confisca del lavoro degli ebrei e dei loro beni non sono stati colpiti esplicitamente: in molti casi anzi hanno garantito il destino a molti persecutori e obbligato le vittime a rivendicare diritti che avrebbero dovuto avere automaticamente riconosciuti.
Anche per questo il ritorno dei sopravvissuti non ha innescato una vera e propria presa di coscienza collettiva, come se si preferisse affondare nella condanna globale del fascismo la specificità di un’esperienza legislativa che avrebbe dovuto interrogare tutte le strutture dello Stato. Mentre i deportati diventavano fantasmi che si preferiva evitare come per non fare i conti col passato, cadeva il silenzio anche sulla conoscenza del corpus legislativo e della sua storia.
Il 2 giugno 1946 l’Italia diventa una Repubblica e la sua costituzione stabilisce a fondamento del vivere insieme un patto di uguale cittadinanza: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.” (art.3)
Anche a Bergamo tutti coloro che tornano dalla Germania costituiscono un gruppo omogeneo da soccorrere più che da imparare a conoscere e indicati genericamente con il termine “reduci”. In particolare dei 45 deportati razziali, tornano solo 3 sopravvissute. La loro voce si perde tra quelle dei quasi 20.000 rimpatriati bergamaschi dalla Germania (18.527 secondo quanto riferito dalla stampa locale).
In generale l’Italia fatica a cogliere le ragioni delle partenze di coloro che ritornano; in particolare se consideriamo la realtà di Bergamo, si vede con chiarezza quanto la deportazione razziale manchi di voci per dirle e farle conoscere. Bisognerebbe avere la pazienza di interrogare le assenze, ma la società bergamasca del dopoguerra è distratta dagli impegni della ricostruzione e più propensa a ripristinare la commemorazione della morte di Antonio Locatelli che a interrogarsi su chi non è tornato o è scappato lontano per salvarsi, per chiedersi quale destino è toccato a quei concittadini definiti di “razza ebraica”, diventati per legge di serie B.
Nei fatti la presenza ebraica in città si è ridotta nei numeri e per tutti coloro che ritornano non resta che riprendere a vivere una normalità, che colpisce ancora, dolorosa e solitaria, donne e uomini provati dall’esperienza dell’emarginazione.
Laura Levi, unica donna delle sette della famiglia Levi di Ambivere ad essere sopravvissuta, si trasferisce a Bergamo e cercherà per tutto il dopoguerra una normalità impossibile da ricostruire.
La famiglia di Carlo Sacerdote e Elsa Levi con i loro due figli Luciana e Guido rientra dalla Svizzera poco dopo la fine della guerra: proprietaria di due negozi di lusso, uno sito in via Crispi e l’altro sul Sentierone, durante la Rsi si era vista confiscare tutti i propri beni tanto che al momento del rientro in città non ha nemmeno una casa dove andare a dormire. Trovano alloggio prima presso una stanza dell’Hotel Moderno, poi dentro al loro negozio in “Galleria Crispi”. Seguirono lunghe vicende giudiziarie: diversi decreti prefettizi annullarono le precedenti requisizioni, ma le perdite erano tali che i Sacerdote intentarono un’azione legale contro gli esecutori delle requisizioni, che si concluse un anno dopo con l’assoluzione degli imputati. I processi si protrassero per anni e la famiglia non fu mai completamente indennizzata.