Conosciamo la storia delle spie attraverso i documenti dei processi che a loro carico si tennero nel dopoguerra. In essi vanno emergendo le tante ragioni per cui si diventa spia – dall’adesione ideologica al nazifascismo al rancore personale per le vittime della denuncia, dall’avidità a desideri di vendetta -, ma soprattutto si esplicita il nesso tra delazione e morte conseguente alla denuncia. Il riconoscimento di questo nesso rende non solo la spia responsabile delle conseguenze della sua denuncia, ma giustifica in alcuni casi anche la sua condanna per collaborazionismo militare.
Proprio la terribile fine di don Bolis, morto massacrato a San Vittore, è uno dei capi d’imputazione che più pesano durante il processo contro la spia Elena Ambrosiak.
Nata in Polonia nel 1915, Elena Ambrosiak è stata una delle spie più capaci al servizio delle SS di Milano insediate all’Hotel Regina. Durante il suo processo davanti alla Corte d’Assise di Milano emerge come Milano fosse anche il suo quartier generale e come alla pensione Morelli, in via Petrella, ricevesse “militi della polizia germanica predisponendo con loro i piani che poi avrebbe svolto con precisione diabolica” (sentenza della Corte d’Assise di Milano).
Il raggio d’azione di Ambrosiak era molto ampio e, grazie a un tesserino di libera circolazione, rilasciatole dalle SS, Elena poteva spostarsi e viaggiare liberamente tra la bergamasca e il lecchese. Nei suoi spostamenti in bergamasca può contare sull’OP di Resmini e in particolare su Silvio Monge, che era diventato suo fedele accompagnatore.
Molto probabilmente è con l’intento di spezzare la rete che aveva fatto della val San Martino, tra bergamasca e lecchese, un passaggio sicuro e frequentato per l’espatrio di clandestini verso la Svizzera, che Elena Ambrosiak raggiunge la zona di Calolziocorte, punto nodale per l’organizzazione, e riesce ad infiltrarsi nella rete che aveva come principale riferimento don Bolis. Il lavoro di Ambrosiak smantella la rete, chiude la via di fuga e le sue conseguenze sono la morte di don Bolis e la deportazione di suoi collaboratori, alcuni dei quali non faranno ritorno.
Benché Amborsiak al processo davanti alla Corte d’Assise sostenga che si trovava a Calolziocorte già dal maggio 1944, sfollata con la suocera e il marito, che la frequentazione coi tedeschi era stata conseguente al suo essersi trovata sola dopo che il marito l’aveva abbandonata e che l’accusa di spionaggio era solo una montatura del marito e della suocera che volevano sbarazzarsi di lei, la Corte riconosce che “le testimonianze concordano in modo sicuro nel proclamare la verità sullo spionaggio assiduo, implacabile di Ambrosiak, sull’attività di avventuriera adescatrice di patrioti nella bergamasca”. E proprio perché “non si preoccupava se gli arrestati andavano a morire in Germania, come occorse ai Rosa, o nel carcere di San Vittore, come è occorso a don Bolis”, la Corte non le concede le attenuanti e la condanna alla pena di morte.
La pena non viene però mai eseguita poiché la Cassazione, a cui Ambrosiak, fece ricorso riconosce applicabile nei suoi confronti la cosiddetta “ amnistia Togliatti”.