Non si tratta di fare della spia l’incarnazione del male assoluto che viene a rompere la concordia tra formazioni partigiane o dentro la formazione: sarebbe idealizzare un’esperienza complessa e carica di tensioni che nascono proprio dall’intreccio nella Resistenza di sensibilità, cultura e tradizioni diverse, intreccio in cui si sostanzia l’importanza della Resistenza per la storia del paese. Si tratta invece di fare i conti con una tra le fragilità più grandi della Resistenza strettamente legata al suo essere anche una guerra civile: vissuta dentro la collettività, la Resistenza è guerra volontaria e i suoi uomini e le sue donne devono impare a distinguere chi si avvicina con franchezza da chi lo fa pronto a fare il gioco del nemico.
Così succede per esempio quando Clelia Fioretti in Bossi cerca di infiltrarsi nella rete di donne impegnate nell’assistenza agli ex prigionieri della Grumellina e nella creazione delle prime bande. Lydia Curti ricorda che quando Betty Ambiveri, il 21 novembre 1943, le manda una nuova collaboratrice, Clelia Bossi, all’entusiasmo dell’amica oppone un profondo scetticismo. Non si tratta però che di sensazioni con cui una spia sa giocare abilmente, infiltrandosi nella trama delle tante relazioni che la Resistenza in formazione va strutturando.
E Clelia Fioretti è una spia capace: era nata a Pordenone il 19 maggio 1886, è persona conosciuta in città alta, segretaria del Gruppo rionale femminile del partito fascista. È probabile che la sua adesione alla guerra nazifascista sia radicata; è certo che il suo lavoro di spia non è occasionale: fin dall’ingresso dei tedeschi a Bergamo si mette – in collaborazione con la figlia Pinuccia – al servizio dei tedeschi e a disposizione delle SS che avevano requisito il Collegio Baroni. Fare la spia diventa allora il suo lavoro ed a ogni denuncia riceve un premio speciale. Nel suo lavoro può contare sull’appoggio dell’autorità nazifascista, come quando in casa sua accoglie Adriana Locatelli, il capitano Benassi e alcuni membri della Banda Maresana accompagnati da Mimma Quarti e dal dott. Bottazzi e consegna loro la pianta del carcere per portare, a suo dire, il suo contributo al progetto di assalto che la banda stava organizzando. Se il comportamento della Bossi fa nascere alcuni sospetti nel capitano Benassi, i giorni necessari alla Resistenza per smascherarla le sono sufficienti per raccogliere le prove e far cadere tutta la rete.
Nel processo celebrato nell’immediato dopoguerra, Clelia Bossi viene imputata, “per avere, mediante intelligenza e corrispondenza cogli uffici delle SS tedesche dell’ex collegio Baroni ed allo scopo di favorire le operazioni politico-militari del nemico, nuocendo nel contempo a quelle del movimento insurrezionale”, di ben ventuno capi di accusa. Sarà condannata il 2 marzo 1946, con le attenuanti generiche, alla pena di trent’anni di reclusione, successivamente amnistiati quasi completamente dalla Cassazione nel 1947.