scheda completa

Gerber Salomone e Oscar

Salomone e Oscar Gerber


Clusone – Gandino


Scheda di famiglia e percorso di internamento: 


Salomone Gerber (IG), nato a Dohoradzano (PL) il 21 maggio 1884, e il figlio Oscar (IG), nato a Budapest (H) il 23 marzo 1911. Giunsero in Italia il 20 marzo 1938 a Trieste e poi a Milano, Oscar fu internato a Campagna (SA) il 6 luglio 1940, poi a Ferramonti il 18 agosto 1940, Salomone a Campagna nel luglio 1940, poi a Rossano (CS) l’11 settembre 1940 e a Ferramonti il 30 dicembre 1940, entrambe trasferiti a Quero (BL) l’11 ottobre 1941 e fino al 26 gennaio 1942. Furono confinati a Clusone il 22 febbraio 1942 e poi trasferiti a Gandino il 31 marzo 1943. A Gandino dopo i bombardamenti alleati dell’agosto 1943 arrivarono la moglie di Salomone Enzia Rosemberg, anch’essa di origini polacche, e i figli Agnese (Aghi), EllenLadislao e Rosalia. Della famiglia erano stati arrestati e internati i soli Oscar e Salomone, mentre gli altri componenti erano rimasti indisturbati a Milano dove avevano continuato la loro attività di pellicciai, portandosi poi a Gandino solo a fine agosto 1943. 

(Capitoli di riferimento: Gli “internati liberi” in provincia di Bergamo / Fuggiaschi e clandestini)


Salomone e Enzia si erano conosciuti a Budapest dove per vie diverse erano emigrati. A Budapest, avevano aperto una fiorente impresa di confezione e commercio di pellicce e lì erano nati i loro cinque figli. La famiglia era fuggita dall’Ungheria agli inizi del 1938 a causa del peggioramento delle condizioni degli ebrei e dei numerosi pogrom antisemiti. Dopo essersi fatti rilasciare passaporti polacchi, i Gerber avevano scelto l’Italia, dove avevano numerose conoscenze per i rapporti commerciali con ditte di Trieste e Fiume. Entrati in Italia a Trieste il 21 marzo 1938[1], non essendo riusciti ad ottenere visti per l’America per tutti i famigliari, i Gerber si erano stabiliti a Milano dove avevano riavviato la loro attività giungendo ad avere una trentina di dipendenti. Allo scoppio della guerra Salomone e Oscar furono arrestati e incarcerati a San Vittore per essere poi internati a Campagna[2]. Durante il successivo internamento a Ferramonti Oscar conobbe Herta Brattspiess, di cui si innamorò e con cui si fidanzò. Non furono internati la moglie e gli altri figli: Oscar racconta che la madre era venuta a trovarlo a Ferramonti perché voleva conoscere la fidanzata. Oscar e Salomone cercarono di avvicinarsi alla famiglia, ma per il loro internamento libero furono inviati a Quero nel Bellunese. Gli internati cercavano spesso di farsi ricongiungere con altri parenti o amici o conterranei, inoltrando domande per il loro trasferimento che difficilmente venivano accolte. In questo caso fu Herta Bratspiess che aggirò l’ostacolo chiedendo I’autorizzazione al matrimonio con il correligionario Oscar Gerber. II Ministero dell’Interno aderendo alla richiesta per il matrimonio, autorizzò il trasferimento dei Gerber a Clusone il 6 febbraio del 1942. A Clusone i Gerber si stabilirono in via Cifrondi 8, ma il matrimonio venne rimandato a tempi migliori[3] perché, come Oscar già aveva detto a Herta a Ferramonti, “Se vuoi puoi aspettare alla fine della faccenda, perché nessuno sapeva come andava a finire, e non volevo fare di due miserie quattro o cinque”, infatti quando i Gerber furono trasferiti a Gandino, Herta rimase con i genitori[4]. Oscar giunto a Clusone cercò di riprendere la proprio attività di pellicciaio e il 15 aprile 1942 presentò una regolare denuncia dell’attività economica all’Ufficio Provinciale delle Corporazioni per poter esercitare un “laboratorio di ritagli delle pelli di agnello e di capretto per pellicceria”, domanda che fu trasmessa dall’ufficio al Ministero dell’interno, Direzione generale Demorazza, rimanendo in attesa “di istruzioni [5] ; dal suo racconto la risposta doveva essere stata positiva dato che riuscì ad avviare la sua attività in appoggio a quella della famiglia a Milano. A Gandino i Gerber abitavano in Vicolo Ferretti presso i coniugi Silvestro Rota e Teresa Pezzoli, ed anche lì Oscar proseguì il suo lavoro; i testimoni ricordano anche che Oscar si allontanava spesso dal paese per recarsi a Clusone a trovare la fidanzata[6].


Dopo l’8 settembre la paura dei tedeschi li spinse a cercare rifugio in montagna, ospiti al monte Palandone di Vincenzo Rudelli. La cosiddetta “Colonia Rudelli” fu il primo rifugio per almeno quattro delle famiglie degli ebrei di Gandino. Vincenzo, insegnante di matematica a Bergamo, era un antifascista convinto, malgrado l’età collaborò attivamente con i partigiani e più tardi dovette a sua volta fuggire ed entrare in clandestinità; la colonia, utilizzata anche dai partigiani, fu data alle fiamme dai fascisti durante un rastrellamento.


La permanenza al Palandone si rivelò difficile d’inverno: i Gerber dovettero scendere, Salomone e Enzia, in cattive condizioni di salute, furono ricoverati clandestinamente in ospedale e tornarono a Gandino dopo la guarigione.


I Gerber si procurarono documenti falsi, Oscar divenne Battista Nodari, non conosciamo i nomi assegnati agli altri membri della famiglia, sappiamo invece chi procurò le carte a Ladislao e Rosalia, che rilasciarono il 1 maggio 1945 una dichiarazione conservata all’ISREC tra le carte Schwamenthal[7]:


I sottoscritti di razza ebraica, residenti a Gandino, per sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi e della G.N.R., dichiarano di aver ricevuto tramite interessamento del sig. Bolis Francesco con la collaborazione della signora Emilia Locatelli in Bolis e Bolis Lucia, tessere di riconoscimento bilingue falsificate e sotto altro nome dalla quale risultavano a reparti dell’esercito repubblicano nonché fogli di licenza di convalescenza di mesi tre più volte rinnovato, debitamente timbrato e firmato. La sorella Rosy dichiara di aver avuto per sé una tessera bilingue di riconoscimento falsificata, vidimata dal comando germanico della piazza di Bergamo con la quale ha potuto circolare liberamente figurando persona addetta a ditta protetta. 

Gerber Ladislao, Gerber Rosalia (firma autografa).


I Gerber, come gli altri ebrei, venivano avvisati dei rastrellamenti, ma non sempre il comune riusciva a precedere le mosse dei nazifascisti, racconta Iko Colombi[8]:


Si sa che Lazy fu catturato dai tedeschi nel rastrellamento del 28 agosto 1944. Nella prima alba di quella calda mattina, una colonna di camion tedeschi e alleati italiani, inaspettatamente invase il paese. Bloccando le vie con postazioni armate, passarono al setaccio ogni casa, alla ricerca di gioventù da deportare. Erano le cinque del mattino. Angelo Colombi[9], che aveva diciassette anni, scendeva scalzo da Cirano, “per andare dal fornaio”. Poi, il terribile viaggio sui treni merci stipati e la vita nei campi di concentramento. La stessa sorte toccò ad un’altra decina di ragazzi; mentre altri, catturati, vennero subito liberati per ragioni diverse.


Lazy, Ladislao Gerber, era fra coloro che vennero liberati per ragioni diverse, le modalità della sua liberazione sono state raccontate da Elena Gerber in un’intervista telefonica raccolta da Sergio Luzzato il 28 luglio 2012[10]:


Fu con Ladislao in carcere a Bergamo che l’altra sorella Rosa, decise di bussare alla porta del prefetto Carnazzi. A propiziare il contatto Clara Klein, un’ebrea ungherese che aveva lavorato come giovane pediatra all’ospedale di Bergamo, e che forse per questo conosceva il dirigente dell’Opera nazionale maternità e infanzia. “Me lo ricordo benissimo l’avvocato Carnazzi” mi ha detto Elena Gerber: “era buono”. “Per fare quello che ha fatto, per salvare Ladislao, non ha voluto niente. Né parcella né niente.” Carnazzi[11], prefetto di Salò, e funzionario solerte nell’applicazione delle normative antisemite, ma anche fascista dal volto umano, e professionista disinteressato nell’assistenza dell’unico ebreo catturato a Gandino? Si direbbe proprio di sì.


E’ probabile che la dottoressa Klein sia “l’amica dottoressa” dei Gerber di cui parla Lina Rudelli[12]:  


i Gerber … Avevano anche loro una bella sorella che un giorno è venuta su anche lei con quei begli occhi lì, neri come il carbone con tutte ste ciglia che sono tipiche del tipo loro, è venuta a trovarli poi un giorno una mia amica che era professoressa di disegno mi dice “sai dov’è il vicolo tale a Gandino” era il vicolo dove si erano fermati loro che avevano due stanze, ma io non parlo, anche se era la mia più cara amica, io non parlo, “sai Lina conosci gente lì”, si, conosco anche la signora Carrara, conosco, perché scusa ha detto “c’era mica anche una signora che si chiamava Gerber, perché una mia amica dottoressa li cerca dappertutto perché è anche lei ungherese e non sa più dove trovarli, non pensi che li abbian presi i tedeschi?”, “No dico rassicurala, allora te lo devo dire, sono in casa mia e li vedrò domani perché salgo io con lo zaino” allora lei mi ha detto guarda che glielo dico, e questa mi ha fatto sapere, era ebrea anche lei questa dottoressa, e mi ha detto potrei venire a trovarli, e gli ho detto ma venga su, è una casa alla buona, quello che c’è, c’è per tutti, e infatti lei è venuta questa dottoressa e si sono abbracciati fra di loro, si son messi a parlare la loro lingua, madonna che pena poveretti.


Anche Oscar incappò in qualche brutta avventura riuscendo però a non farsi prendere, la sua storia è raccontata nell’intervista alla USC Shoà Fundation, a cui rinviamo.


I Gerber riuscirono a raggiungere indenni il giorno della liberazione, ma senza più denaro per poter riavviare l’attività e nemmeno per mantenersi. Dovettero fare richiesta[13] al comune per ricevere il sussidio previsto dalla Circolare n. 451/1731 del 14 agosto 1944 del Ministero dell’interno del Regio Governo[14], emanata per provvedere ad affrontare la situazione degli ebrei stranieri nel territorio liberato dagli eserciti alleati. Oscar tornò per primo a Milano, dove con l’aiuto di correligionari e di amici inglesi del padre riuscì, partendo ancora una volta da zero, a riavviare la loro attività di pellicciai. I Gerber continuarono ad avere rapporti con Gandino e gli amici che li avevano salvati fino a quando la scomparsa di molti loro, la tarda età e la malattia gli impedirono di recarsi a Gandino.


L’intervista a Oscar Gerber


L’intervista a Oscar Gerber[15] è stata raccolta da Lisa Sacerdote per conto della USC Shoà Fundation[16] il 14 aprile 1998 e può essere ascoltata sull’apposito sito curato dal Ministero dei Beni Culturali, indicato nella nota, che raccoglie le interviste a cittadini ebrei, italiani o stabilitisi poi in Italia, scampati al genocidio nazista o perché sopravvissuti alla deportazione o perché rimasti in clandestinità durante l’occupazione nazista e la Repubblica di Salò.


L’intervista è di grande interesse non solo perché racconta quanto a lui accaduto nella nostra provincia, ma per il quadro che fornisce della vita in un paese, l’Ungheria, nel periodo immediatamente successivo alla I° guerra mondiale e il violento clima antisemita maturato nel paese negli anni trenta. Oscar narra la sua storia, e in quelle vicende è lui il protagonista, mentre i membri della sua famiglia compaiono solo incidentalmente, al punto che alcuni episodi pur salienti, come la cattura e la liberazione del fratello, non vengono accennati.


È da sottolineare come i traumi subiti in quegli anni abbiano lasciato un segno indelebile: il risentimento verso la nazione di origine, maturato a causa della coscienza che l’antisemitismo imperante nella nazione ha contribuito alla distruzione della sua popolazione ebraica, e la diffidenza nei confronti di altre popolazioni, frutto di un’esperienza storica e tragica che non è sicuro sia irripetibile.


L’intervista non è presentata nella trascrizione integrale: malgrado l’abilità degli intervistatori vi sono digressioni e salti temporali che renderebbero il racconto meno fruibile, inoltre il poliglottismo e alcune influenze della lingua madre permangono. Il testo è quindi frutto di una rielaborazione, però “conforme” all’originale per contenuti; la forma è quella della storia narrata in prima persona e si è cercato di conservare la freschezza del racconto orale, anche a spese della correttezza sintattica. I fatti narrati sono stati ricomposti nella loro successione cronologica e sono state omesse le digressioni.


LA STORIA DI OSCAR GERBER 

La vita in Ungheria


Mi chiamo Oscar Gerber e ho 87 anni, sono nato a Budapest in Ungheria il 12 marzo 1911. La mia famiglia era composta da mio padre Salomone, mia madre Enzia Rosenberg, da me, dalle mie sorelle: Rosi, che è morta l’anno scorso, Elena, da mio fratello Ladislao e ultima mia sorella Agnese.


La nostra famiglia era originaria di Zurigo, ma il mio bisnonno, disgraziatamente, ha sposato la mia bisnonna e poi tutto il resto è nato lì, chi in Ungheria chi alla frontiera polacco-ungherese, nella Tatra, tutto il resto in Ungheria. La famiglia materna, era invece originaria di Konigsberg, nella Prussia Orientale, la madre è nata a Orovic[17], Polonia, quando aveva un anno l’hanno portata in Ungheria, la nonna a Dodrovic e mio padre[18] a Bolciani, Ungheria, Polonia da quelle parti lì, il nonno paterno è nato in Ungheria, che allora era in Ungheria, a Sotmara che oggi è Rutenia e appartiene alla Russia, il resto tutto a Budapest. Mio padre e mia madre si conobbero a Budapest, mia madre aveva un anno quando è venuta in Ungheria, ha fatto tutte le scuole in Ungheria. Mio padre ha conosciuto mia madre quando aveva venti-ventun anni e poi si sono sposati. Io sono stato il primo figlio, mia sorella che è morta aveva due anni in meno, era del tredici, poi Elena del 19, Ladislao del 23 e Agnese del 30. Ho buoni rapporti con tutte le sorelle, col fratello meno, per questioni di interesse, lavorando nello stesso ramo prima o poi saltano fuori delle differenze, ma non è che non parliamo. Da piccolo era molto attaccato a me, crescendo poi è subentrato l’interesse, come dappertutto.


In casa di mia nonna si parlava il tedesco svizzero oppure l’yiddish perché non parlavano bene l’ungherese, coi genitori l’ungherese, ungherese, tedesco, yiddish, come veniva, come capitava. 


I nonni abitavano non lontano da noi a Budapest, io ero lì tutto il giorno finché non andavo a scuola, così pure mia sorella maggiore perché mia madre doveva aiutare mio padre, che aveva quattro negozi più la conceria, e non aveva tempo di occuparsi di noi. Poi alla fine della settimana, venerdì sera, sabato, tutti assieme dai nonni, ma non dormivamo dai nonni la sera veniva mamma o il babbo a prenderci e ci portava a casa. 


Avevamo un legame molto forte specialmente coi nonni materni, i nonni paterni abitavano presso la frontiera polacco-ungherese, da Budapest erano distanti circa 600 km, tra i Tatra, e lì era molto difficile andare e venire. Però durante la guerra[19] i russi hanno invaso quella parte dell’Ungheria, il resto della famiglia, cioè nonno, tre zie e due zii vennero da noi, la nonna è rimasta ed è stata derubata e poi uccisa dai russi, dai cosacchi del Don. La nonna paterna si chiamava Giuseppina del nonno ricordo il nome ebraico, Itzack Ben …, non ricordo più, quelli materni Hersh Eib Rosemberg e la nonna Sirl Altkorn, metà ebraico e metà tedesco. Mio padre mi ha portato prima dello scoppio della prima guerra mondiale a conoscere i nonni paterni, verso la fine del tredici o al principio del quattordici, e appena è scoppiata la prima guerra mondiale siamo riusciti a prendere l’ultimo treno che tornava in Ungheria, proprio l’ultimo treno.


A Budapest sono nato in via Dobozi utca 25[20], poi ci siamo trasferiti in via Dalszinhaz u. 31. Erano case non di lusso, normali e la seconda era pure non di lusso, ma migliore, in Dalszinhaz u. che vuol dire via del Teatro del Popolo. Noi maschi avevamo una camera, le sorelle un’altra. Il quartiere era pieno di ebrei: a Budapest vivevano trecentomila ebrei, di cui quasi nessuno c’è oggi, perché i bravi ungheresi sono stati tanto bravi a farli fuori.


Mio padre lavorava nella pellicceria, ma teneva anche confezioni da donna e da uomo, perché in Ungheria si lavorava solo tre o quattro mesi con la pellicceria, ma l’anno ha dodici mesi e bisognava vivere e allora ha aggiunto anche le confezioni donna e uomo. Doveva spesso viaggiare per il lavoro, anche all’estero. Il laboratorio era in Karfenstein utca dove stavano i Goldstein, i genitori, la sorella maggiore dei Goldstein era mia compagna di scuola alla scuola ebraica, e la seconda era in Dalszinhaz u. e anche lì la maggioranza era ebrea.


Ho frequentato le prime due elementari in una scuola comunale, il resto, altre quattro elementari e le medie, nella scuola comunale ebraica, ho poi frequentato l’Accademia Commerciale, una scuola superiore parastatale che era finanziata non dallo stato, ma da industriali ebrei di quella città.


Ho dovuto smettere di frequentare la scuola pubblica perché ogni giorno erano baruffe, mia mamma ha visto che non si poteva continuare, o le prendevo o le davo: la minima cosa era “sporco ebreo” e allora ci si picchiava, nella scuola ebraica ero a casa. Nella scuola non ebraica, cristiana, ogni settimana c’era un’ora di religione, veniva un rabbino e ci insegnava le cose elementari della religione, in quella ebraica invece tutto si basava sulla bibbia, l’antico testamento, e poi gli altri. Nella scuola ebraica si studiavano le materie prescritte dallo stato ungherese, come nella scuola comunale, più l’ebraico, ma la maggioranza era più ebraico che sul programma, invece il programma era principalmente sulle lingue, scuole superiori, cioè le basi delle lingue. Avevamo un professore che insegnava molto bene e insegnava a parlare nelle lingue che noi parliamo, inglese, tedesco, ungherese, non a tradurre, perché non si può tradurre da una lingua all’altra, ci sono delle espressioni intraducibili, ci ha insegnato che quando parlavamo in ungherese dovevamo pensare come gli ungheresi, quando parlavamo in tedesco dovevamo immedesimarci e pensare come i tedeschi oppure gli inglesi oppure yiddish; l’yiddish non l’hanno insegnato alla scuola superiore, solo alle medie.


Alla scuola ebraica parlavamo yiddish perché per studiare il Talmud Mishnah, i commenti, bisognava sapere l’ebraico, lo yiddish non si può tradurre altrimenti né in ungherese né in italiano, bisogna saperlo. Fra gli insegnanti mi ricordo Abramo Klein, che mi ha preparato anche al bar mitzvah, poverino, tutta la famiglia fatti fuori, solo lui ci ha seguito dalla terza elementare fino alla fine delle medie. Ci insegnava l’ebraico, poche traduzione, per lo più a parlarlo. Dei compagni di classe alla scuola ebraica ricordo Blum, Dracker, poi Maddalena Verms, la Goldstein, non ricordo se si chiamava Magda o Rose, e poi Taver, ero amico di tutti, facevamo parte della squadra di calcio della scuola: giocavamo due o tre volte alla settimana.


Quando sono andato i primi due anni alla scuola pubblica e nella scuola superiore all’Accademia commerciale c’erano ragazzi non ebrei e i rapporti erano pessimi, come ho già detto tutti i giorni erano baruffe; c’era il mio caro amico, aveva perso una delle gambe quando era stato travolto da un tram, e lui si appoggiava su di me, tirava fuori la protesi, che era un pezzo di legno della scopa, e lui davanti e io didietro da due parti poverino. Si chiamava Emil, Emilio Fuchs, non so se è vivo o morto, perché era a Madrid o a Barcellona, non so, durante la guerra di Spagna. Lui era lì e lavorava con suo zio; quello che è successo in Spagna, non la questione ebraica, ma fu un macello, più di un milione di morti, tra di loro repubblicani e populisti, però la Spagna si è comportata verso di noi molto bene perché quando incominciava l’annientamento dei tedeschi in Polonia, allora Franco era il Caudillo, ha dato l’ordine a tutti i consolati, le ambasciate di dare documenti spagnoli a tutti quelli che parlano lo spagnolo o il dialetto spagnolit, che è castigliano, per salvarli dai tedeschi: sono stati considerati cittadini spagnoli perché sono discendenti di quelli che sono stati scacciati dalla Spagna nel 1490. 


Poi ho giocato, siccome era tra i migliori ai miei tempi, alla Ferencvárosi che faceva il campionato di prima divisione, però là giocavo come riserva, ero giovane, sedici diciassette anni quando mi hanno preso. Era la squadra della città, di un distretto di Budapest che si chiamava Città di Francesco, era una squadra professionista, mi davano qualche mancia perché ero troppo giovane, semiprofessionista. Oltre a me c’erano due altri giocatori ebrei e tutto il resto no. I rapporti con i ragazzi, i giocatori, erano molto buoni, anzi buonissimi, l’allenatore era ebreo si chiamava Isack, c’era un mio allenatore più avanti che era allenatore anche del Milan, si chiamava … non ricordo, poi era anche stato allenatore del Lanerossi Vicenza o del Milan e poi è andato in Portogallo, allenava di prima divisione, e poi in Brasile dove allenava la squadra che ha vinto il campionato mondiale[21], anche lui era ebreo. Non erano buoni i rapporti con la direzione tecnica della squadra. Mentre i giocatori e l’allenatore mi hanno rispettato perché ero un buon giocatore, il resto no, faceva delle osservazioni ambigue, e mi prendevano in giro, mi canzonavano, sempre a base di antisemitismo.

Non erano insulti come sporco ebreo, questo no, ma tipo voialtri ebrei qui e là tutti usurai, e questo non era vero perché gli ebrei non lo potevano fare, potevano solo fare il commerciante come attività.


La comunità ebraica ungherese era molto ricca ed era presente in tutta l’Ungheria: un milione di ebrei, solo a Budapest trecentomila, la capitale, il resto erano sparsi, 5.000, 3.000, 10.000 seconda l’importanza della città. Nel mio distretto, dove sono nato e vissuto, c’erano cinque sinagoghe, in tutta la città di Budapest penso che vi fossero settanta-ottanta sinagoghe, più piccole.


Quando studiavo alla scuola ebraica al venerdì sera si finiva presto: alle tre alle quattro e si andava tutti alla sinagoga, dopo gli studi no, perché non avevo tempo: dovevo lavorare. Ho frequentato le sinagoghe progredite: vi erano due tipi di sinagoghe quelle dei chassidin e quelle dei progrediti, noi andavamo dai progrediti. Il rabbino era il dottor Schreiber. La mia famiglia frequentava la sinagoga dei chassidin, dove era assessore mio nonno materno. Io, finito dai progressisti, andavo a prendere i miei genitori, non andavo d’accordo per diversi motivi coi chassidin.


Il tempio dei progressisti era moderno, quello invece dove andavano i genitori era come quelli delle piccole province, lo stretto indispensabile, rotoli semplici, tabernacolo semplice dove si tenevano i rotoli della Torah, l’antico testamento, che viene letto ogni sabato e ogni festa principale. Per lo Shabbat a casa mamma accendeva le candele, e mamma, o i nonni quando erano vivi, recitava kiddush[22]. Il mangiare era quello strettamente prescritto dalle leggi igieniche della nostra religione, la carne non doveva andare con latticini e viceversa, perché se si mangia latticini, burro, latte, occorre aspettare due ore per mangiare la carne, invece se si mangia la carne si deve aspettare otto ore. I miei genitori erano osservanti in casa, e la cucina era strettamente ortodossa, c’erano due lavabi: per i latticini e per la carne e non si mischiava niente. Quando ho fatto Bar Mitzvah[23], c’erano tutti i nostri parenti e gli amici, però l’ho fatto al tempio dei chassidin, ma anche i miei amici cristiani sono venuti ad assistere a visitarmi e hanno assistito tutto il tempo, finché ho finito le mie preghiere, e poi gli amici del babbo di cui molti erano cristiani, clienti anche, insomma il tempio era pieno. Dopo il tempio abbiamo fatto un banchetto in casa nostra, c’erano una sessantina di persone, molti miei compagni di scuola. L’avevo fatto dai chassidin, anche se tutto quello che ho avuto di male dagli ebrei partiva da loro, per via dei genitori e dei nonni materni, e quindi non potevo sottrarmi.


A prepararmi al Bar Mitzvah c’era il dottor Klein Abraham, quello che mi ha preparato anche per l’italiano, i rudimentali ecco i primi passi dell’italiano, del tedesco e dell’inglese anche dell’ungherese, mi ha aiutato molto. La preparazione per il Bar Mitzvah è durata un anno circa, meno i giorni di riposo, venerdì, però il sabato no, da domenica fino a venerdì. Ho fatto il Bar Mitzvah a tredici anni, non si può far prima, dopo sì, ma solo a causa di malattia o lutto. 


La festa ebraica che preferivo quando ero piccolo era Purim[24], per i dolci principalmente lo …[25], che era pieno di noci di marmellata, di semi di papavero, di strudel, uvetta e un po’ di marmellata, oppure lo strudel che si basava sulle mele e uvetta dentro, zucchero a velo sopra, è fantastico, ogni tanto me lo fa la moglie, però dietetico senza zucchero, si chiama mirida[26], è spagnolo ecco.


I dolci li preparava la cameriera, a casa c’era la cameriera, anche mia madre li faceva, ma non aveva tempo: i negozi, poi la conceria, noi bambini, non ci arrivava, c’era la cameriera che faceva molto bene, e siccome era sempre da noi, ha appreso tutte le nostre abitudini, lei era cristiana, ma ci preparava tutti i cibi kasher, non si faceva differenza fra lei e noi, perché lei era cristiana e noi eravamo ebrei, quello non esisteva da noi, si chiamava Maria, il cognome non lo ricordo. Prima di lei c’era anche una sveva, che non sapeva l’ungherese, pensi la sua famiglia viveva da trecento anni in Ungheria, erano dei coloni tedeschi e venivano proprio dalla Germania, non dall’Austria. Con noi parlava sempre in tedesco, il dialetto tedesco, Schwäbisch, e mi aiutava molto anche nel tedesco. A Purim ci si mascherava anche, avevamo ospiti i bambini della casa e anche della scuola, proprio i migliori, che erano più vicini a noi, anch’io andavo da loro, bisognava ricambiare.


Avevo degli amici cristiani e andavo anche alla chiesa cristiana: se loro avevano un battesimo o qualche sorella o zio si sposava, mi invitavano e io andavo, come se fossi stato cristiano. Ho incominciato a non andare, mi ricordo ero già nella scuola superiore, quando il prete incominciò a parlare contro di noi: “non andate al compleanno degli ebrei, evitatelo, vadano in Palestina”, ora che c’erano molti che andavano in Palestina si mettevano contro di noi, ma questo non riguarda i cristiani italiani, questo accadeva nell’Europa centrale, centro settentrionale e orientale o in Jugoslavia, che faceva parte dell’impero austroungarico fino alla Prima guerra mondiale.


La Prima guerra mondiale e la fuga a Vienna 


Quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale ero bambino: mi ricordo che la miseria era tremenda, non c’erano i bombardamenti come nella Seconda Guerra Mondiale, ma la ristrettezza era grande; mia madre allora ha preso a nolo un carro con due cavalli e è andata dai contadini a comprare, faceva mercato nero per noi per le zie per gli zii, perché allora non c’era niente da comprare, solo quello con le carte annonarie, i punti. A punti vendevano il pane, due etti di pane al giorno, burro carne, era roba da poco, roba da morire di fame ecco. Poi ricordo la febbre spagnola che era una cosa tremenda, tutte le mattine venivano i carri della nettezza urbana a raccogliere i cadaveri, l’ho visto io dal balcone, li prendevano e li buttavano sopra come stracci, erano ammucchiati come stracci cinquanta, sessanta, trenta finché non erano pieni questi carri e poi li bruciavano, era una cosa tremenda. Durante la guerra abbiamo vissuto a Budapest, ma dopo sono arrivati i comunisti, nel diciannove[27], fine diciotto. Quando è scoppiato il comunismo, mio padre era ricco e quindi non potevamo rimanere lì perché prendevano tutti i ricchi, tutti i benestanti, li deportavano e li facevano fuori nelle foreste o nelle prigioni. Siamo andati a piedi da Budapest a Vienna, duecentocinquanta chilometri a piedi, non potevamo prendere il treno perché ci tiravano giù subito, si camminava di notte quando la gente non ci vedeva e, se c’era movimento per strada, per i campi. Mia madre era in stato interessante con la mia seconda sorella, Elena. Durante il giorno ci nascondevamo nei covoni, poi siamo arrivati quasi alla frontiera, il viaggio è durato una decina di giorni. Mio padre ha dato un sacco di soldi a un barcaiolo per attraversare il fiume Lajta, e quello ci ha portato dalla parte austriaca, per cui ci siamo salvati. Io ho fatto anche le scuole in Austria, sempre nelle nostre scuole.


A Vienna, mio padre aveva un sacco di clienti, ha cominciato a lavorare: durante la Prima guerra mondiale mio padre lavorava con degli austriaci e poi anche con degli italiani. A Trieste c’era un banchiere, Castiglioni e poi un altro ancora, ho visto quel nome da un grande pellicciaio qui, Meloni, erano banchieri e finanziavano allora mio padre perché faceva delle forniture per l’esercito, ad esempio: per gli alpini ungheresi, i kaiserjager, avevano bisogno degli interni e bisognava comprare il grezzo e farlo conciare. Dopo la guerra ha continuato i rapporti di lavoro, ed è stata la nostra fortuna poter venire in Italia appoggiandoci a loro. Per me fu un grande dolore perché ho passato tutto la mia infanzia, con intervalli, ma sempre a Budapest, un sacco di amici, cristiani, ebrei, amiche sa, per esempio la Goldstein, Magda o Rose, non mi ricordo. 


A Vienna andammo ad abitare, nel secondo distretto, all’hotel New York, in Kleine Sperlgasse, in quell’hotel siamo rimasti per tutto il nostro soggiorno a Vienna: siamo fuggiti da Budapest a maggio, siamo rimasti fino a novembre o dicembre, avevamo a che fare solo con tedeschi e austriaci: ho dimenticato l’ungherese. Si parlava sempre il tedesco, una specie di dialetto tedesco, il Wienerisch, il dialetto di Vienna, e quindi ho avuto poi difficoltà in Ungheria perché ho dovuto ricominciare da capo, uno strazio. A Vienna frequentavo la scuola ebraica, religiosa, era diversa da quella di Budapest: c’era più tedesco che yiddish, più che altro era Wienerisch, ma l’insegnamento era in tedesco, tedesco puro, con inflessione dialettale però. A scuola a Vienna feci solo pochi amici, e solo superficiali. Frequentavamo una sinagoga a Seitenstettengasse, dall’altra parte di Vienna, nel secondo distretto, era il tempio maggiore di Vienna[28], non so se esiste ancora. Il cantore principale era lo suocero di mio zio: un ex cantante lirico poi diventato cantore maggiore di quel tempio, si chiamava Mathias, poi c’era anche un tempio più piccolo dove frequentavo la scuola una specie di cappella, c’era il bagno rituale degli ebrei, delle donne ebree ecco, dato che prima di sposarsi le donne devono fare il bagno rituale, dove avevo un altro zio che era non ingegnere, capomacchinista, trattava le macchine, si chiamava Giuseppe Rosemberg, fratello di mia mamma, e poi c’erano dei cugini, ma non in quel tempio naturalmente, uno è morto a Shangai, ma non mi ricordo, l’altro era degli Altkorn, di quel ramo c’erano due cugini, poi c’erano ancora i parenti più lontani ancora, ma non ricordo il loro nome. Al tempio centrale andavamo il venerdì o le altre feste, venerdì sera, o sabato, quasi tutti i giorni si andava nel tempio più piccolo, quando andavo lì la sera, perché ci sono due minhag[29] e la preghiera del pomeriggio, poi la …[30]; finito la scuola ebraica al pomeriggio, alle quattro, quattro e mezza con tutto il gruppo si andava al tempio, anche per ragioni di studio, per seguire il cantore, per seguire il rabbino. Non ricordo il nome del rabbino del cantore sì, Mathias Masa, perché è diventato un parente ecco, suocero di mio zio.


Mio padre era credente molto credente, ma non osservante, per esempio io da adulto dovevo lavorare e non potevo andar via dal cliente, dovevo trattare, far degli affari, consegnare la merce, e poi non potevo mangiare kasher: kasher si poteva mangiare a Roma anche a Torino, ma negli altri posti, a Montecatini niente, a Pienza niente. Nel tempio piccolo c’erano i bagni rituali per le donne, i bagni dei molto ortodossi, molto osservanti, al tempio maggiore una parte è addetta per i bagni rituali. Mia madre ci andava prima di sposarsi, dopo no, dopo non è necessario, si possono fare i bagni rituali anche a casa, ma solo dopo sposati, sono cose su cui non vado molto d’accordo, ma anche mia moglie è andata prima di sposarsi, uno o due giorni prima del matrimonio.


Il ritorno a Budapest e l’emigrazione in Italia 


Tornammo a Budapest nel ventidue, ero contento di tornarci, era la mia città natale e poi non c’erano assassinii ancora, solo dopo è successo di tutto, però non parlavo più la loro lingua, ma dopo un paio di mesi ho imparato di nuovo, mi sono ricordato ecco e ho ripreso a frequentare la scuola, la scuola ebraica, così pure mia sorella. La mia altra sorella andava alla scuola comunale e mio fratello minore e l’ultima, Agnese, hanno fatto qui le scuole perché erano giovani, mio fratello minore ha fatto le due medie ancora a Budapest, il resto qui. 


Ho finito la scuola ebraica a quattordici anni e mezzo, completata la quarta media, poi sono andato alla scuola superiore, non avevo ancora quindici anni, dopo quattro anni, a diciannove facevo la maturità. Alla scuola superiore non mi sono trovato molto bene, né con i professori, né con i compagni di scuola: ogni momento, ogni mattino era buono per attaccare, per dare una punzecchiatura “voialtri ebrei, voialtri qui, voialtri là, voialtri”, certo noi siamo differenti da loro, non ho di Budapest in generale che dei ricordi pessimi, finiva che ci si picchiava quasi ogni giorno.


Anche i professori, uno mi ha detto che io sono sempre mangione: era l’insegnante di stenografia e dattilografia, una cosa molto noiosa, usava un sistema vecchio di cento, centocinquant’anni, il Gabelsberger[31], mi annoiavo, avevo la merende di casa e ho cominciato a mangiare e leggere, perché il giornale sportivo era sotto il banco, quello si è accorto ed è venuto dietro di me, passeggiava tra i corridoi delle panchine e, guardato cosa facevo, mi ha mollato due ceffoni da dietro che per mezz’ora non ho sentito niente. Anche il capo della classe, si chiamava Boda, insegnava francese e storia ungherese, e quello di matematica, fisica, che era uno spretato, erano antiebraici, gli altri erano neutrali, non filo ebrei, ma neutrali.


Ho completato le superiori a diciotto anni e mezzo, prima di compiere i diciannove, mi piaceva studiare, specialmente le lingue perché sapevo che mi sarebbero servite per il mio lavoro, perché nei tempi normali noi dovevamo viaggiare: Germania, Cecoslovacchia, Jugoslavia, anche l’Italia fino a Trieste, Austria, vendere e comprare, secondo l’occasione, molto a Lipsia dove c’erano delle aste. 


A Lipsia c’erano quasi tutti gli ebrei russi che erano fuggiti dalla Russia: si erano impiantati a Lipsia e c’era un mercato mondiale, perché facevano il sistema russo: veniva merce dal Canada, dall’Africa del sud, dal Caucaso e poi si metteva all’asta. Mi ci ha portato per la prima volta mio padre, era prima di Hitler, nel trenta, si chiamava il mercato della pellicceria grezza già conciata, Brull[32], ogni casa, ogni negozio erano grossisti del grezzo e là ho imparato il grezzo: un inesperto non darebbe diecimila lire per una pelle e per cui io davo milioni perché sapevo cos’era.


Finita la scuola superiore, avrei voluto proseguire: economia e commercio, il commercio è collegato anche con le lingue quindi avevo già un punto di vantaggio, anzi due perché facendo l’accademia commerciale avrei saltato il primo anno di università, ma non potevo iscrivermi a causa delle leggi razziali[33]. Allora ho iniziato subito a lavorare nella pellicceria col grezzo, sapevo di dover imparare se volevo stare in piedi, e infatti è stato così. Quando sono arrivato in Italia, altra storia lunga, dopo due mesi avevo già trentasei operai, non soltanto interni, anche esterni, che lavoravano a cottimo per me e andava molto bene, tanto è vero che quando mi hanno arrestato allo scoppio della guerra, mio padre, le mie sorelle e mia mamma andavano tutte al negozio, e andava come se fossi lì, nessuno disturbava, tutti ci aiutavano finché non sono arrivati i tedeschi.


Abbiamo lasciato Budapest nel trentotto, era impossibile rimanere, era diventato pericoloso uscire per strada, pogrom su pogrom, tutti sapevano che ero ebreo e allora come potevo fare con tre o quattro o cinque che magari tiravano fuori una rivoltella o un coltello, non potevo fare niente io da solo, poi i miei genitori, mio fratello era un ragazzo, ancora alla seconda media, la mamma, non c’era niente da fare: di giorno in giorno diventava sempre più impossibile.


Andammo in Italia per provare, perché mio padre lavorava con l’Italia, aveva dei clienti a Trieste, Fiume, Padova, Mestre, se no avremmo potuto andare in un altro posto in Svizzera, ma preferimmo l’Italia perché la Svizzera era troppo vicina ai tedeschi. Con un passaporto ungherese non potevamo uscire, prima di tutto bisognava far vedere che avevamo pagato tutte le tasse, che avevo il servizio militare e poi, sapendo che ero ebreo, niente da fare. Io avevo fatto solo il servizio premilitare: ci avevano insegnato tutto quello che una recluta deve sapere, trattamento dei fucili e camminare con trenta quaranta chili sopra lo zaino, si mettevano dentro dei pezzi di roccia, facendo dieci quindici chilometri, questo otto dieci mesi all’anno, una volta alla settimana non il sabato, domenica. Il servizio premilitare dovevano farlo, tutti, anche i cristiani e i rapporti non erano male tra di noi lì, perché più o meno eravamo amici e conoscenti tra di noi con tutti cristiani, ebrei, non era male. Lì non ci sono stati episodi di antiebraismo, anzi si stava attenti ad evitare le baruffe, le discussioni, poi d’estate ci portavano al lago di Balaton, che è il lago più grande dell’Europa è novanta-cento chilometri di lunghezza e in media 20 chilometri di larghezza, si faceva il bagno, nuotate e poi si mangiava un po’ rustico, ma molto bene.


Per lasciare l’Ungheria abbiamo dovuto procurarci passaporti non falsi, passaporti veri, polacchi, pagando quello che si doveva pagare, con quelli siamo usciti, non come ungheresi, come polacchi. 


C’erano degli avvocati che si occupavano di quelle cose lì, naturalmente loro guadagnavano, non poco, probabilmente facevano fifty-fifty, metà e metà, sa cosa hanno pagato i miei suoceri per quattro passaporti, me l’ha detto mia moglie, venticinquemila dollari d’oro a passaporto, quattro passaporti centomila dollari d’oro, che il valore odierno ogni dollaro d’oro è ventuno di oggi, si sono svestiti quasi. Allora i prezzi non erano così alti, mi ricordo che è arrivato tutti assieme a diecimila dollari. I passaporti però erano regolari: potevo andare al consolato a rinnovarli, quindi erano legali, probabilmente nel consolato di Budapest erano d’accordo tutti. Sono poi andato al consolato d’Italia in Budapest per un visto e mi hanno detto non ce n’era bisogno, mi hanno chiesto perché volessi andare in Italia “per fare dei bagni perché soffro di reumatismi di artrosi, di qui e là …”, e mi hanno detto “si va bene, vada pure non ne ha bisogno” e così siamo venuti tutti quanti, tutta la famiglia, padre, madre, due fratelli e tre sorelle.


I nonni materni erano già morti, però sono rimaste le zie, i cugini: circa cinquantadue persone, di primo grado, il secondo grado non lo so, l’unica che ha lasciato l’Ungheria è stata mia cugina che l’anno scorso è venuta a trovarci, era ospite nostra. Anche altri parenti hanno pensato di emigrare, ma non sono riusciti: perché abbiamo dovuto svestirci allora, oro e tutto quello di valore l’abbiamo dovuto nascondere sottoterra, e poi è stato rubato.


Ci siamo portati dietro quello che avevamo addosso, forse avevamo ottocento, mille dollari, e poi un po’ di oro, l’orologio e poi il portasigarette d’oro, la mamma un gioiello di brillanti, gli orecchini che ora porta mia figlia, poco o niente. La merce l’abbiamo venduta, in parte l’abbiamo portata con noi come oggetti personali, mia madre, le mie tre sorelle, qualche cosa che era di un certo valore perché erano pellicce di persiano di visone, di volpe, con quello abbiamo ricominciato.


Il viaggio era durato ventiquattro, trentasei ore, perché non era un diretto, era un locale che si fermava in Budapest e andava fino alla frontiera jugoslava, a Kotoriba, si fermava da tutte le parti anche attraversando la Jugoslavia. Eravamo agitati perché avevamo paura che ci tiravano giù dal treno in Ungheria, in Jugoslavia si era più tranquilli, però non si sa mai, c’erano i croati che erano mangia ebrei. Siamo arrivati a Trieste la sera e abbiamo cambiato treno e preso un diretto, alla mattina siamo arrivati a Milano.


Liberi in Italia


A Milano abbiamo alloggiato prima in albergo, l’albergo Agnello, per due o tre mesi, poi abbiamo trovato un ungherese che ritornava in Spagna, ha venduto la sua casa, ha venduto la buona uscita dalla casa, i muri non li poteva vendere perché era proprietà del padrone di casa, là siamo rimasti durante e anche dopo la guerra. Nel quarantotto-quarantanove i miei hanno trovato una casa da comprare in via … qui vicino, ci son dentro ancora la mia sorella e mio fratello minore. La casa era molto elegante, a livello nostro, però più piccola, era una casa moderna. Di italiano sapevo quello che avevo imparato a scuola, però parlavo tutto all’infinito, io venire, io andare, io avere fame, ci si arrangiava insomma, dopo tre o quattro mesi ci si arrangiava già a parlare correntemente. 


A Milano abbiamo ripreso a lavorare: abbiamo trovato la casa, avevamo affittato tutto il cortile e il primo piano, avevamo trentasei operai. Il governo fascista non dava valuta estera per importare e quello che arrivava era tutto per contrabbando, abbiamo allora trattato articoli nazionali, agnello, capretto, Kips[34] dell’Abissinia, roba media, si poteva, si doveva lavorare, conigli, lepri, tutto quello che capitava. Dopo due o tre settimane avevo trentasei operai perché mi avevano sepolto di lavoro, di ordinazioni, perché viaggiavo, a Genova, Bologna, Torino, a far vedere un campionario che avevamo fatto e mi hanno dato gli ordini subito. Mia sorella Rosy e mio fratello Ladislao, aiutavano in laboratorio, Agnese andava ancora a scuola, Elena era odontotecnico, lavorava presso la Vipla, e ha proseguito durante tutta la guerra, anche se sapevano che era ebrea, perché era indispensabile: facevano denti artificiali, per la parte tecnica erano tedeschi, sapevano, ma non parlavano, né gli italiani né i tedeschi, mia sorella è stata subito assunta perché era specialista di questa lavorazione.


Mia madre faceva la casalinga, perché era troppo vecchia e cominciava ad essere ammalata, mio padre faceva la parte amministrativa, anche lui era vecchio, la mamma ha avuto una paresi, che le aveva lasciato una emiparesi alla bocca.


Quando siamo arrivati ci siamo subito iscritti e abbiamo affittato i posti al tempio maggiore, andavamo al sabato o io o mio padre, uno doveva rimanere a casa per dirigere gli operai, il rabbino del tempio maggiore era il dottor Friedenthal[35]. Noi eravamo askenaziti, e noi abbiamo pronunciato l’ebraico come i sefarditi, non yiddish, l’yiddish è la traduzione austro ungherese tedesca, ma anche loro qui prendevano molto dal rito tedesco. C’erano anche templi per gli ebrei askenaziti, ci sono ancora, ma io preferivo stare con gli italiani perché da loro era pieno di chassidim e io non voglio avere a che fare con loro, tutto quello che di cattivo dannoso che ho avuto da ebrei è venuto da loro, e non solo io, ma anche mio padre e mio zio. Loro non rispettano i dieci comandamenti, non rubare … perché loro li interpretano come vogliono loro, questo si chiama in yiddish paskenen[36] “come piace a me così voglio fare”, non è come prescritto da noi, dieci comandamenti e commenti, mishnah, talmud, niente, come vogliono loro. Con gli ebrei italiani però mi trovavo un po’ come un pesce fuor d’acqua: non sono riuscito a fare un amico fra loro, dopo la guerra sì. Gli ebrei italiani erano troppo nazionalisti “noi siamo ebrei e questo qui è venuto qua”, lo facevano sentire, a me non importava, io avevo pochi clienti ebrei, tutti gli altri italiani, a Trieste avevo qualche amico ebreo.


Avevo al confino un ex capitano dei corazzieri italiani Ottolenghi si chiamava, poi io mi sono imparentato con la famiglia Ottolenghi, perché un Ottolenghi ha sposato la sorella del nostro genero, e quello lì l’otto settembre: “Io sono italiano, non mi interessa, io torno a casa a Torino”, gli ho detto “non andare, le difficoltà che avremo incominciano adesso, non esiste un’autorità italiana, sono tutti tedeschi”. Aveva una donna mentre era al confino con noi, quella donna lì era una donnaccia, ha avuto una relazione con il figlio del console tedesco, e lui sapeva chi era lui e l’ha fatto arrestare; un mio cliente a Torino, un certo Colombo, in via Roma ha visto quando i tedeschi lo portavano via sul camion, si chiamava Felicino Ottolenghi[37]. Della donna non ricordo il nome, era una tedesca. C’erano altri ebrei ungheresi a Milano, c’era un ristorante in Galleria del Corso, un ristorante tedesco ebreo kasher, noi o sabato o domenica andavamo perché si mangiava a modo nostro, lì ho incontrato molti di loro, ma quasi nessuno si è salvato.


Prima della guerra le mie giornate a Milano erano impegnate soprattutto dal lavoro, ma dopo verso le cinque e mezzo, gli operai andavano via. Io chiudevo il laboratorio e andavo al cinema, a teatro o ballare: frequentavo diverse ragazze, ma non erano ebree. Con le leggi razziali del trentotto mia sorella minore e mio fratello minore sono stati allontanati dalla scuola, io non studiavo più le altre mie sorelle lavoravano. Sono stati allontanati direttori di banca, professori universitari, cantanti della Scala, c’era un certo Veneziani[38], era il capo del coro della Scala, e poi cantanti Gildingorin[39], era un famoso baritono, adesso se lavora ancora, se vive, è dell’Opera reale degli olandesi, all’Aia o ad Amsterdam o Rotterdam, l’ho visto io mentre andavo due volte a Londra, col treno allora. Noi invece potemmo continuare a lavorare, nessuno ci ha disturbato; una volta il federale di Milano è venuto a trovarci “Perché i vicini di casa e dei negozi ci volevano molto bene e davano informazioni ottime e voleva vedere chi eravamo”, e ha visto lì una mezza fabbrica e noi che lavoravamo giorno e notte, “Brava gente, brava gente”, e così abbiamo lavorato tutta la guerra fino a quando sono arrivati i tedeschi.


Anche il decreto di espulsione per gli ebrei stranieri è rimasto sulla carta, non esisteva, ci hanno censito, e non è cambiato niente. Sulla carta non avevamo i diritti come loro, ma praticamente zero.


Però pensavamo di andare via, c’era il decreto, davano anche la facilità di prendere su ogni passaporto due tre o quattromila dollari a testa quindi potevamo portar fuori con cinque passaporti, sei passaporti un piccolo capitale, ma nessuno dava i visti di ingresso perché sapevano subito che eravamo ebrei: Svizzera e Francia non ne parliamo, in Inghilterra niente, nessuno voleva gli ebrei.


Come dicevo dopo le leggi razziali abbiamo continuato e rimanere a Milano, non avevamo altra via d’uscita, ma nessuno ci toccava avevamo più di trentasei operai tra esterni e interni, non c’era ragione per cui si dovesse andare. Non cambiarono nemmeno i rapporti con i non ebrei, l’Italia è un’eccezione come pure Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia, per esempio in Danimarca quando i tedeschi hanno invaso tutta la Danimarca, erano i primi a mettere sul petto la stella di Davide, un pezzo di cose gialle, e poi la corporazione danese ha aiutato i bambini ebrei a scappare in Svezia la notte con i battelli dei pescatori, l’Italia era l’unico paese dell’Europa centrale e meridionale che faceva la stessa cosa, forse più di loro.


La guerra e l’internamento


Poi il 10 giugno nel 1940 è scoppiata la guerra, l’undici all’alba ero già arrestato. Ero a casa, alle quattro dell’alba son venuti a prendermi “per cinque minuti”, quei cinque minuti sono durati cinque anni: “Venga con noi” dicevano, “perché è solo una formalità, cinque minuti” allora ho detto: “Ma proprio adesso verrò là al mattino o a mezzogiorno, come volete voi, venite a prendermi, vi aspettiamo”, ma quelli “No, no subito”. Allora ho capito di cosa si trattava e come la faccenda sarebbe andata a finire, prima no. Ci arrestarono i questurini di San Fedele, la questura centrale[40]. Eravamo noi ebrei con gli altri prigionieri, dentro un’automobile, non si vedeva niente, si vedevano le grate, e poi a San Vittore. Avevo ventisette anni e rimasi a San Vittore per ventitré giorni.


Appena arrivati ci hanno portati prima a prendere le impronte digitali, poi dovevamo svestirci e fare la doccia, dopo la doccia abbiamo potuto riprendere i nostri vestiti. Ci hanno portato nel secondo raggio, il raggio dei politici, perché oltre noi c’era un sacco di antifascisti cristiani, precedentemente già in confino. Eravamo in un camerone, si parlava e c’erano con noi tedeschi, inglesi, francesi, austriaci, altri ungheresi, polacchi, quasi tutti ebrei, più tre o quattro cristiani polacchi e francesi e due inglesi, ne reincontrai quattro o cinque a Campagna di Eboll e due o tre anche a Ferramonti di Tarsia. 


Mi facevo portare da mangiare dalla cantina a pagamento, perché quello che davano loro non riuscivo a mangiarlo, io avevo soldi con me, dovevo mettere in deposito tutto quello che avevo con me, valori, orologio, anello e piccolezza di oro: la penna Parker. Non avevo bisogno del mercato nero per il cibo: tutto quello che mi serviva potevo comprarlo alla cantina del carcere, pagando; ho fatto un’autorizzazione in modo che loro potessero prelevare dal mio conto. La cantina era un cosa autorizzata, i prigionieri che avevano soldi potevano mangiare, vendevano soprattutto roba da mangiare: carne impanata, di maiale o di vitello, pastasciutta, ma non come quella della cucina del carcere, ma una cosa normale, pane bianco, vino. Tanti potevano permetterselo, ma per quelli che non potevano abbiamo provveduto noi, abbiamo fatto la colletta, oppure ho dato ordine di prelevare dal mio conto a favore di quello. Non c’erano servizi igienici, solo il bugliolo, all’inizio ero in una cella dove dovevano stare quattro o cinque persone, eravamo in dodici, e si doveva fare i bisogni in qualche angolo e tutti a guardare, può immaginarsi.


Solo uno dei guardiani ci ha trattato male, però quello lì l’hanno fatto fuori i partigiani. Una volta è venuto il direttore, molto bravo, e ci ha domandato “perché siete qui come vi chiamate” e allora ho detto “perché i polacchi erano cristiani, francesi idem, inglesi idem, e noi perché siamo ebrei e ci sono le leggi razziali”, niente, basta è stato tutto lì, ma ufficialmente niente, ci hanno trattato bene. I miei famigliari venivano una volta alla settimana a trovarmi, prima mio padre e gli ho detto di non mandarmi le sorelle e la mamma, mio fratello minore; sono venuti due o tre volte nel tempo che ero lì, non lo so. Tutti i giorni mi mandavano quello di cui potevo aver bisogno e non potevo comprare dentro, naturalmente passavano alla censura, aprivano, tagliavano guardavano dentro il pane, l’ungherese che è una bontà, rotto, tagliato …


Non fummo avvisati della partenza: alle tre del mattino arrivò quel guardiano malvagio “ebrei fate la catena”, “perché?”, “andate in Germania”, non ci ha detto che saremmo andati giù in bassa Italia, ma “andate in Germania”, può immaginare, sapevamo che in Germania ci aspettava la morte, che ci avrebbero fatto fuori; uno di noi ha dato il segnale a qualcuno di fuori. Alla fine della guerra io con alcuni miei amici non siamo andati a casa mia, siamo andati a San Vittore, siamo entrati, lo abbiamo cercato, ma ci dissero che l’avevano già fatto fuori, non so se è vero o non è vero, ma avemmo una grande soddisfazione. Alla stazione centrale eravamo al primo binario, non era un treno merci, ma era come dire un omnibus che si fermava a tutte le stazioni, sul treno ci hanno tolto le catene, il viaggio è durato trentotto ore. Che non andavamo in Germania ce l’hanno detto i questurini che ci accompagnavano, erano bravissimi.


Il viaggio fu lungo e poi il caldo, il sudore, non sono riuscito a dormire; ho conosciuto molte persone durante il viaggio, mi ricordo Carlo Levi, era un medico laureato e faceva il pittore, in precedenza era già stato al confine e lui ha chiesto di andare là dove era già stato, perché ogni paese della provincia di Eboli era per i confinati antifascisti e ebrei, purtroppo ci hanno divisi io non l’ho rivisto più.


Io non riesco a capire perché quelli del nord ce l’hanno con quelli del sud: quando siamo arrivati con la tradotta a Napoli eravamo tutti incatenati e allora i facchini hanno chiesto chi eravamo, quando gli è stato detto che eravamo ebrei e andavamo in campo di concentramento, se avesse visto: una pioggia di soldi, di cioccolati, di sigarette, di aranci, tutti; non ho mai potuto capire perché questo odio fra settentrionali e meridionali. Arrivando poi da Campagna di Eboli a Ferramonti di nuovo in catene e quando siamo scesi e ho detto a uno dei capi dei questurini “senta io sono venticinque ore che non mangio, non riesco a mangiare freddo perché sono malato di stomaco, andiamo qui al ristorante della stazione, paghiamo tutto noi”, tutti sono stati d’accordo e siamo entrati incatenati, dentro loro ci hanno tolto le catene, allora l’oste ha chiesto chi eravamo, dato che avevamo le catene, e quando ha saputo che eravamo ebrei che andavano in campo di concentramento, ci ha dato tutto quello che volevamo da mangiare e non ha voluto accettare i soldi, una cosa mai vista.


Il campo di Campagna


Il paese di Campagna è in alto fra le colline, un paese di più di mille anime; eravamo tra i cinquecento e i mille ebrei stranieri, e poi c’erano un sacco di ebrei italiani antifascisti. Eravamo acquartierati nella caserma di San Bartolomeo, che era stata trasformata perché i militari erano stati mandati in Russia, in Albania, in Africa e quindi l’hanno destinata a noi. La sveglia era alle sei o alle sette, ci si lavava nel cortile tutti nudi e poi si mangiava ognuno quello che voleva perché dentro c’era una cantina che era di proprietà dell’albergo di fuori. Per passare il tempo chi giocava a carte, chi studiava chi faceva i bagni, perché c’era un ruscello più su in alto, io andavo quasi tutti i giorni a nuotare, quello che si poteva, perché la pozza dove si poteva nuotare era lunga neanche venti metri, bagni di sole, poi si giocava a carte. Eravamo liberi, avevamo il controllo al mattino e alla sera, tanto nessuno voleva andar via perché ci conveniva rimanere lì, dato che sapevamo cosa ci aspettasse fuori. Si poteva telefonare alla famiglia chiedendo un permesso oppure inviare una cartolina, così mi facevo mandare questo o quest’altro e i soldi. A Milano la mia famiglia aveva potuto continuare come prima, come in pace. 


Io ero tra i pochi che parlavano l’italiano, facevo una specie di interprete tra ebrei polacchi e così, ho conosciuto un prete che mi diceva “signor Gerber, vuol vedere qualcosa di interessante, venga da me domani”, mi ha detto l’ora, dopo pranzo, quando lui era libero. Mi ha fatto vedere un libro dove si registravano nascite, matrimoni e tutto, mi ha fatto vedere nel 1600 c’erano un sacco di ebrei spagnoli lì, che fuggivano dalla Spagna, dall’inquisizione; lo faccio vedere solo a lei e non parli perché non vorrei avere dei disturbi poi della mia autorità superiore, vescovo e tutto. Saltava fuori che tutto il paese discendeva dagli ebrei, infatti, avevano la messa di sera, la facevano già prima degli altri, come ho visto io a Milano e altrove, questo piccolo Bar Mincià[41], erano discendenti maroniti degli ebrei convertiti per salvarsi la pelle dall’inquisizione. Poi mi ha invitato a vedere la cacciata del diavolo da un’invasata, una cosa tremenda che si raddrizzavano i capelli.


Tra noi ebrei bastano dieci adulti per fare una minian[42], una messa ecco, i religiosi facevano questo, io se me la sentivo andavo, però cercavo di evitare perché non volevo avere a che fare, erano dei fanatici, erano integralisti come i maomettani. Il povero rabbino è stato ucciso da loro, ecco. Quando me la sentivo andavo, il sabato, non avevo altro da fare.


Sono rimasto a Campagna tre o quattro mesi, poi, non so perché, io e una cinquantina di internati siamo stati trasferiti a Ferramonti di Tarsia. Ci avevano avvisato due giorni prima, all’appello del mattino ci hanno detto che tra due giorni saremmo stati trasferiti a Ferramonti di Tarsia, vicino a Cosenza, sapevamo che era un campo di concentramento, ma ci dissero che la libertà l’avremmo avuta anche là. Difatti entro i limiti del campo potevamo fare quello che volevamo, bastava non dar disturbi alle autorità che erano lì, ai questurini, al direttore del campo, al vicedirettore, e c’era anche il medico condotto e anche il veterinario. A Campagna non c’erano donne, a Ferramonti sì, e lì ho conosciuto mia moglie. Il viaggio fu più breve, siamo partiti alla sera e arrivati a mezzogiorno. Non ero contento di lasciare Campagna, anzitutto perché non sapevo come sarebbe stato il trattamento lì in campo: a Campagna mangiavo in albergo giocavo a carte all’albergo, telefonavo a casa, all’albergo potevo trovare anche prodotti del mercato nero, mi sono sbrigato bene. A Campagna nessuno pensava a scappare, tutti sapevamo che dovevamo star lì anche se non avevamo tutte le comodità, ringraziavamo il cielo di essere lì.


Il campo di Ferramonti


Siamo stati ammanettati, non sul treno, ma quando ci portavano alla tradotta e quando serviva cambiare, due o tre volte. Ferramonti era piuttosto spopolato, stavano terminando il campo, le baracche e i reticolati attorno, c’erano dei canali poiché il terreno era appena stato bonificato dalla malaria, tra l’altro mio padre si è ammalato lì di malaria, e in seguito ne è morto perché non se l’è levata mai più, era una cosa tremenda: quando aveva una crisi, febbre da quaranta a quarantuno, freddo caldo, freddo caldo, gli abbiamo messo sopra tre o quattro coperte e aveva sempre freddo, sempre freddo, però poi ha fatto una cura di chinino perché ci hanno distribuito ogni mattina all’aperto due chinini e quelli dovevamo mangiare, io l’ho mangiato per un anno.


Quando siamo arrivati eravamo in tutto cento internati, sparsi a destra e a sinistra, chi giocava a calcio, chi a scacchi, chi andava nel tempio a pregare, ma poi il numero aumentava sempre perché ogni giorno arrivavano da altri posti. Appena arrivati ci assegnavano ad una baracca, io ero nella prima baracca, la seconda era dirimpetto si entrava davanti chi a destra chi a sinistra. In ogni baracca stavano trenta, trentacinque persone; ci saranno state una cinquantina di baracche come minimo, forse di più, specialmente quando è arrivato il gruppo illegale di Bengasi, tra i quali c’era mia moglie e la sua famiglia. Sono arrivato che era la fine di luglio o l’inizio di agosto del quaranta.


Nel campo eravamo liberi di fare come volevamo: se volevo potevo dormire se no uscire, ma sempre dentro il recinto, non fuori. Io iniziavo al mattino con la preghiera, poi mi lavavo, mangiavo e mi mettevo a leggere o a studiare, a giocare a calcio o fare atletica leggera o pesante, a nuotare, ma soprattutto a leggere, leggevo molto. Nel campo ho studiato l’italiano e altre lingue, poi giocavo a calcio o andavo in quel canale a fare il bagno, a fare una nuotata perché l’acqua era alta, si potevano fare tante cose, ma non uscire dal campo, anche il canale era entro i reticolati, c’erano le sentinelle, all’angolo nel mezzo e all’altro angolo e nel mezzo camminavano sempre in due o tre, erano della milizia fascista, ma era brava gente, mi dicevano “io fuori porto la camicia nera, però dentro sono rosso”. I rapporti con il personale del campo erano ottimi con tutti, specialmente il vicecomandante un maresciallo, mi lasciava fare quello che volevo. Il capo del campo era un vicequestore di Napoli, non ricordo il nome, ma era un galantuomo. Tra noi c’erano un sacco di medici che si sono laureati a Bologna, a Milano, a Torino, a Siena, a Roma; hanno curato i due figli del comandante, non sapeva come sdebitarsi, perché non han voluto soldi da lui, e allora cercava di favorirci in tutte le maniere.


Io al campo non ho mai lavorato, ma si poteva anche andar fuori a lavorare, accompagnati, e la sera ritornare, però si doveva fare una domanda, ma permettevano tutto: ad esempio  io ho visto che i vecchi, i bambini non avevano ortaggi allora ho chiesto al direttore, ma prima al maresciallo, “se mi permette, vorrei comprare per la cucina dei bambini e dei vecchi qualche cosa per migliorare la loro cucina”, il maresciallo mi ha detto che ne avrebbe parlato col direttore, l’ha sbrigata, e così son potuto uscire e andare a San Marco, lì mangiavo all’albergo e poi tornavo pieno di patate, di cipolle, di ortaggi, pane, quello che volevo, mi lasciavano entrare senza controllare, quando uscivo dal campo però ero accompagnato. Ogni baracca aveva una sua cucina, era la cucina comune, c’erano dei cuochi tra di noi o chi sapeva cucinare, si mangiava così così, insomma, se non mi piaceva potevo comprare alla cantina per mangiar bene o per migliorare un po’: prosciutto crudo, prosciutto cotto, insaccati, pane, dolci, quello che volevi. Avevamo cucina e avevamo anche i cuochi, ogni giorno cercavano di fare qualcosa di diverso, prima di fare domandavano cosa si voleva mangiare, la maggioranza decideva, non è che loro facessero quello che volevano, ma quello che volevamo noi. I cuochi non erano pagati da noi, prendevamo 4 lire al giorno come sussidio degli internati, ma neanche in soldi. Il sussidio è stato poi aumentato a sei lire, infine a otto lire perché cominciava l’inflazione. 


Non andavo a mangiare in altre baracche, non mi interessava, vede in prigione ognun per sé, perché se va male la confidenza e tutto questo, meglio di no, avevo pochi amici, ma molto buoni, la maggior parte erano medici già laureati. Per esempio, mio cognato è stato portato via quando stava per dare le tesi di laurea, è partito con due questurini per Pisa e ha dato la tesi in veterinaria, poi subito in questura e dalla questura a Ferramonti di Tarsia, gli hanno lasciato finire i suoi studi. Tra i pochi amici due o tre erano medici, che mi curavano perché anch’io avevo preso la dissenteria, perché io ero al terzo piano in un camerone (a Campagna) e sotto c’era un cumulo di letame che avevano lasciato i militari che erano stati precedentemente nella caserma e che nessuno portava via, da lì venivano dei mosconi così grossi che infettavano il cibo, il pane tutto quello che era lasciato fuori, ho preso la dissenteria galoppante e sanguinante. C’era un russo bianco cristiano che durante le crisi aveva quaranta di febbre, una volta si è buttato giù dal terzo piano e per fortuna sua su un cumulo di letame e si è salvato, poi i nostri l’hanno curato bene e ne è venuto fuori, però lui aveva il tifo.


A Ferramonti c’era gente di tutta l’Europa, anche dell’Asia: gli italiani li hanno presi prigionieri e poi mandati lì, la maggior parte era dell’Europa centrale: polacchi, cecoslovacchi, slovacchi, ungheresi, romeni e della Jugoslavia, poi anche francesi, inglesi. Si parlavano tutte le lingue, se uno non parlava l’italiano allora chiedevano: “parli yiddish”, la lingua yiddish ci salvava, siamo rimasti ebrei, e questi mascalzoni integralisti con loro rigore ci hanno salvato, questo è l’unico merito che riconosco loro.

Di nascosto arrivava quasi tutti i giorni Basel Nachrichten, Zurich Zeitung[43], anche Der Sturmer il giornale del partito nazista. Volevamo sapere, non so come arrivavano, io li ho ricevuti dalla decima mano, pagando naturalmente, avevano interesse e li hanno mandati, qualche volta giornali ungheresi e slavi; a me interessava il tedesco, l’inglese: una volta ho avuto il Times, l’ungherese: allora non sapevo le mascalzonate che hanno fatto gli ungheresi e leggevo anche l’ungherese. Non sapevamo ancora cosa stava succedendo, che gli ebrei venissero internati e trattati molto male sì, ma dei milioni di morti l’abbiamo saputo dopo, quando ero al confine libero, a Clusone, a Gandino. Lo venimmo a sapere anche direttamente: ad esempio il figlio del mio padrone di casa a Gandino faceva parte CSIR[44] armata di spedizione che combatteva accanto ai tedeschi contro i russi, gli slavi, lui poi è rimasto invalido, lacrimava continuamente così si è salvato dalla grande ritirata, e noi abbiamo saputo tutto quello che volevamo sapere.


A Ferramonti c’era anche un’attività religiosa, c’erano diversi templi: degli aschenazisti, dei sefarditi e degli integralisti. Io frequentavo quello degli Aschenaziti qualche volta anche quello degli italiani, sefarditi, ma in quello degli integralisti non ho messo il piede. C’era un rabbino, si chiamava Adler, però non poteva fare il rabbino perché non era sposato, rabbino si diventa con gli studi la laurea e tutto, ma devono essere sposati per esercitare l’ufficio, se non è sposato niente. Per esempio, mia cognata e il mio cognato si sono sposati fuori perché non c’era un rabbino sposato, si sono sposati prima in comune e religiosamente solo dopo la guerra dopo essere arrivati in Israele. A Ferramonti ce ne sono stati parecchi non uno. Festeggiavamo tutte le feste ebraiche: rosh odesh, kippur, e tutte le altre, purim e prima di purim c’era la festa … mi sfugge, e poi le altre e la Pasqua.


Ci lasciavano fare tutto, non si sono immischiati, anzi una volta che è venuto in visita il vescovo di Cosenza e ci ha domandato: “potete fare le vostre preghiere” e nominava tutte le nostre feste.


Era l’inizio di agosto, il dieci o il quindici quando è arrivato un gruppo numeroso e lì ho visto per la prima volta mia moglie e ho detto o questa o nessun’altra. Mio zio[45] mi ha fatto presentare, e gli ho fatto subito una corte serrata, e gli ho detto se vuoi puoi aspettare alla fine della faccenda, perché nessuno sapeva come andava a finire, e non volevo fare di due miserie quattro o cinque. E così è stato. Ci parlavamo un po’ in italiano perché mia moglie aveva una base latina e ha imparato l’italiano più presto di me, o in tedesco: lei non parla yiddish bene, parlava in tedesco puro, il tedesco dei letterati, non ci siamo fidanzati ufficialmente, ma abbiamo incominciato a parlare. Ci vedevamo tutti i giorni, a passeggiare dentro il campo, o andavamo in biblioteca o alla mensa, la cucina dove si mangiava.


A Ferramonti c’era una biblioteca con testi in quasi tutte le lingue: ognuno di noi dava qualche libro che aveva, io avevo qualche libro in ungherese e tedesco, e gli altri avevano … gli studenti, ad esempio, avevano i libri in italiano, i francesi in francese … tutto, c’era solo l’imbarazzo della scelta, c’era gente che erano appassionata e aveva organizzato tutto. C’era anche una scuola, era un asilo piuttosto e poi due elementari per i bambini, perché i bambini più grandi, quattordici, quindici, sedici anni erano pochi, i piccoli sì, quattro, cinque, sei anni allora andavano all’asilo.


Dopo otto o dieci mesi mia mamma è venuta a trovarmi, voleva vedere mia moglie, conoscerla, ha portato un sacco di roba burro fuso, cotto, perché fresco non si poteva con quel caldo, sarebbe diventato rancido e da buttar via, e poi insaccati. E’ stato commovente e piangevamo, io ma anche lei; mi ha portato un orologio d’oro perché se ci fosse stato da scappare e non avessi avuto soldi potevo venderlo “questo tienilo te, tienilo”, le chiesi perché non aveva portato il portasigarette d’oro: “quello lo lasciamo stare per più tardi”, infatti l’ho regalato a mio genero, perché era di mio nonno, io figli maschi non ne ho avuti e lui è diventato mio figlio.


Anche mio padre, dopo sette otto mesi, ha chiesto il trasferimento da Rossano e gli è stato concesso dato che era anziano, vecchio e ammalato. Era ammalato di altre cose, è venuto da noi e poi è diventato più ammalato ancora: malaria. Però eravamo assieme e quello era tutto, eravamo in tre, il babbo, mio zio, il fratello minore di mia mamma, e io. Dormivamo assieme, eravamo nel mezzo della baracca, l’uno accanto all’altro.


L’internamento libero: Quero Vas, Clusone e Gandino


A Ferramonti c’erano anche cristiani, francesi, polacchi, slovacchi e serbi, i cattolici e anche i greci ortodossi: avevano un camerone dove facevano la loro messa, sono differenti dei cattolici e non andavano tanto d’accordo, l’ho visto subito.


A Ferramonti sono rimasto più di un anno: da luglio quaranta all’ottobre quarantuno, poi sono stato traferito a metà ottobre ero a Quero Vas. Era uscita un’ordinanza che permetteva alle famiglie di andare al confino libero e io con mio padre abbiamo fatto una famiglia, però mio zio non è potuto venire. Abbiamo chiesto subito il trasferimento quando l’abbiamo saputo e subito hanno accettato, venivano accettate tutte le richieste, la famiglia di mia moglie venne destinata a Clusone, in provincia di Bergamo, Val Seriana. Siamo rimasti divisi un paio di mesi, poi ho fatto un’altra domanda alla questura di Belluno, perché Quero Vas era in provincia di Belluno, con la scusa che volevo sposare la mia fidanzata e immediatamente me l’hanno dato.


Quero Vas era un paese piccolo, c’erano stati dei combattimenti tremendi durante la Prima guerra mondiale, io avevo avuto uno zio che aveva combatteva coi polacchi contro gli austro ungheresi ed era disperso, la provincia del Veneto era piena di militari caduti, e siamo andati da uno all’altro cimitero perché c’erano migliaia di caduti, capitani, soldati semplici, sottufficiali e senza nome, perché tutto quello che avevano addosso è andato a male o bruciato. C’era un paese che si chiamava Schievenin[46], la cui popolazione è tutta morta durante la controffensiva tedesca, è morta di mine, di fame, di bombardamenti, tutto, sono entrato in una casa completamente abbondata, sul tavolo, un semplice tavolaccio, c’erano ancora i resti di un pranzo o cena, dopo vent’anni era lì ancora. A Quero Vas abbiamo preso in affitto un appartamento, in paese eravamo completamente liberi, se volevo potevo uscire dal paese e andare per esempio vicino a Valdobbiadene, dove avevo dei clienti di prima della guerra, ma a Padova non potevo andare, a Valdobbiadene e a Belluno sì. Sono andato a visitarli, ho fatto anche degli affari, loro han fatto delle ordinazioni, io ho telefonato a casa e gli hanno mandato la roba: il laboratorio a Milano, sotto mia madre, continuava a lavorare.


Una volta la settimana, domenica, dovevamo andare alla caserma dei carabinieri e firmare un registro, tutto lì. Ricevevamo anche il sussidio, era già sei lire al giorno, e poi i nostri soldi. Solo una volta è venuto un vicequestore, è venuto quando ho mandato la domanda, è stato mandato da Belluno, dal questore capo, mi ha chiesto dove sono nato e tutte le cose, e perché volevo andare. Io e mio padre facevamo passeggiate, chiacchieravamo, leggevamo dei giornali stranieri e italiani, e io giocavo anche a calcio: il paese aveva il campo di foot ball e allora allenavo anche un po’ la squadra del paese, erano ragazzi ancora, diciassette, diciotto, diciannove anni. I rapporti con la popolazione erano ottimi, sapevano che eravamo ebrei, loro non avevano mai visto ebrei, credevano avessimo delle corna …, c’erano anche degli austriaci di Vienna, due o tre famiglie, poi tedeschi, poi c’erano francesi e inglesi, italiani no. Alla mia fidanzata telefonavo o scrivevo, e anche lei, siamo rimasti sempre in contatto, sul solaio ho un cestone pieno delle lettere che ci siamo scambiati nell’anno che eravamo separati. 


Siamo rimasti a Quero Vas sette o otto mesi all’incirca, poi mi hanno trasferito. Dovevamo presentarci a Clusone, prima alla questura di Bergamo; anche lì gente favolosa, sa quando i tedeschi hanno invaso l’Italia per prima cosa hanno preso tutti i nostri incartamenti, hanno messo sotto un cumulo di antracite e poi hanno buttato su della legna, sicché quando sono venuti i tedeschi a chiedere dove sono gli ebrei, hanno risposto che erano in Svizzera, che erano tutti scappati[47].


Avevamo chiesto noi il trasferimento, ma non sapevamo che ci avrebbero destinato a Gandino, alla questura di Bergamo ci hanno chiesto dove preferivamo andare e chiesi prima di tutto di vedere la mia fidanzata a Clusone e ci hanno inviato lì. Siamo andati a Clusone con l’ultimo treno a mezzanotte, poi siamo andati in albergo e l’indomani abbiamo cominciato a cercare casa, un appartamento. A Clusone ho potuto rivedere la mia fidanzata, ci vedevamo tutti i giorni. Ho cominciato a lavorare dopo un paio di mesi, dopo essermi ambientato, anche con i sacerdoti e altri ancora. Mia madre mandava su la roba grezza cruda e io lavoravo lì e la mia fidanzata mi aiutava, ha imparato lì, e anche mio suocero che era ancora in grado di lavorare. Passavo tutto il giorno a lavorare, la sera o il cinema o andavo a spasso o andavo a mangiare all’albergo, perché eravamo pensionati all’albergo e a mezzogiorno abbiamo mangiato sempre lì.


A Clusone c’erano però molti fascisti che cercavano di farci del male, ma non sono riusciti perché i commissari e il questore, i carabinieri e gli impiegati comunali, tutti erano con noi, il sindaco, non si chiamava sindaco, ma podestà. Non che ci fossero episodi aperti contro di noi, niente, poi mio cognato era veterinario e lavorava in nero per i contadini e portava delle uova, burro sa … portava anche la carne, perché andava anche a macellare, un pezzetto lo portava sempre, perché non prendeva i soldi, l’hanno sempre pagato in natura.


Il resto della famiglia era a Milano: la sorella maggiore lavorava, la seconda sorella lavorava come odontotecnico alla Vipla, l’ultima andava alla scuola ebraica in via Eupili, mio fratello lavorava, mia mamma era casalinga.


A Clusone veniva a trovarci solo la mamma, a Gandino vennero su quando la situazione era diventata pericolosa a Milano, perché avvenivano dei bombardamenti tremendi; hanno trovato dei piloti americani, dicevano che avevano l’ordine di non toccare la zona del duomo, per tutto il resto facevano quello che volevano.


A Clusone siamo rimasti un anno circa, e poi ci hanno trasferito a Gandino[48] , anche lì la popolazione è stata fantastica: nel gennaio del quarantacinque le SS si sono acquartierate nella scuola comunale e hanno cominciato a deportare la gioventù del paese, non per la Germania, ma per l’organizzazione Todt che faceva riparazioni stradali, ferrovie ponti, e hanno chiesto “ci sono ebrei”, nessuno gliel’ha detto, neanche quelli i cui figli erano stati portati via a lavorare, nessuno ha detto “perché portate via i nostri che qui ci sono ebrei di tutte le nazioni d’Europa”. C’erano anche militari americani, francesi e inglesi nascosti perché dopo l’otto settembre del 43 tutti sono scappati, ma non sono riusciti ad andare in Svizzera e sono rimasti lì nascosti.


Gli abitanti di Gandino sono persone che non si può immaginare, tutti sapevano e nessuno ha detto “ma perché prendono i nostri, qui ci sono loro”, questo non lo posso dimenticare, e ho detto, ho pregato: “se riesco ad arrivare alla fine io prendo la cittadinanza italiana” e così è stato, e quello che ho visto qui in Italia lì io non l’ho visto in altra parte del mondo e ho viaggiato molto, dai ventidue anni sempre in giro o a Lipsia, o a Vienna o a Londra o a Parigi, ma gente così no.


La mia fidanzata era rimasta a Clusone, per vederla facevo sei ore di montagna, su giù, su giù, e sei ore di ritorno, per vederla mezzora, due ore secondo il tempo, l’estate di più perché la giornata era lunga, c’era il sole potevo tornare. Anche lei è venuta a trovarmi diverse volte, a mezzogiorno mangiava e poi verso sera andava via.


I miei sono venuti a Gandino dopo i grandi bombardamenti di Milano[49], ma avevano iniziato ad aver paura quando han cominciato a vedersi in giro molti tedeschi. Noi eravamo già al confino a Gandino e allora ho detto alla mamma qui non va bene, venite su, portate la merce, lavoreremo quel che possiamo, venite, lasciate qui, e loro son venuti su, purtroppo non con tutta la merce perché il babbo diceva, era fissato, che il negozio all’ingrosso non si può lasciare senza merce e perlomeno il campione bisognava lasciarlo lì. Nel quarantatré dopo un bombardamento a tappeto a Milano, la casa bruciava sopra e il nostro appartamento era all’ultimo piano, ma non è successo niente, perché sono riusciti a salvarsi in qualche maniera, e dopo eravamo stati derubati: durante i bombardamenti si erano spalancate le porte del magazzino e i tedeschi avevano fatto man bassa, avevano portato via tutto e non solo loro, anche un sarto che ha portato via dalla casa un sacco di roba e poi vari vicini, allora hanno preso paura, mamma, le tre sorelle e i fratelli son venuti su. Sono arrivati che non era ancora inverno, settembre, ottobre del quarantatré e fino alla fine siamo rimasti lì. Sono venuti prima i miei genitori e il mio fratello minore, Agnese e Rosalie e Ellen sono rimasti a Milano perché lavoravano. Avevamo trovato un appartamento in affitto, non lontano da dove poi avrebbero messo il comando dei tedeschi. 


Clandestini


Dopo l’8 settembre avevamo delle carte di identità false, le aveva procurate un capo partigiano, io avevo una carta di identità falsa di Lomellino da Ticino, Pavia, mi chiamavo Nodari Battista di Lomellino e mi sono trovato trent’anni più di quelli che avevo, però hanno funzionato. A Gandino non c’era possibilità di fare il bagno: una volta per potermi lavare ho preso la neve sciogliendola, non ne potevo più, e volevo andare a Bergamo e sono andato ai bagni pubblici del comune, stavo asciugandomi quando sento entrare dei soldati che parlavano in tedesco …[50], io credevo che mi cascasse il mondo, non mi aspettavo che loro andassero dentro nella cabina a lavarsi sotto la doccia. Non mi sono nemmeno asciugato bene, ho tirato su tutto e via; mi dice la bagnina “ma signore…” poi ha capito e mi ha lasciato andare, sono andato in Città Alta, un gioiello, però avevo fame, ma prima sono andato al cinema per nascondermi, per non farmi vedere in strada, e cosa succede, hanno bloccato il cinema, i tedeschi[51]  sono entrati dentro per il controllo dei documenti, era uno delle Brigate Nere, un Muti, “documenti!” e io gli ho dato quei documenti lì, ma non avevo…, non la dimostro neanche adesso la mia età, mi guarda così e ride non mi dice niente,  mi dà indietro il documento e mi sono alzato e sono scappato. Sono andato su in Città Alta, c’era la funicolare che portava su, avevo paura a entrare in un ristorante allora sono entrato da un salumiere e gli ho chiesto se aveva qualche cosa da darmi da mangiare, un po’ di prosciutto un po’ di cotto, quattro o cinque panini, pagando, ma non voleva prendere i soldi perché aveva capito che qualche cosa non andava dalla mia pronuncia: io non sono riuscito a perdere quella maledetta pronuncia ungherese, io stavo attento, eppure mi scappava. Non voleva accettare soldi e chiedo perché: “io ho soldi, non son mica venuto a mendicare, se non vuole i soldi li dia in beneficienza alla chiesa”, non li voleva, non c’era verso di darglieli, anche adesso non posso dimenticare certe cose. 


Dapprima a Gandino, non c’erano tedeschi, sono venuti che io era da più di un anno a Gandino, nel gennaio del quarantacinque, sono venuti, hanno buttato fuori gli alunni, nella scuola comunale che era in principio del paese, e si sono acquartierati; quando succedevano le razzie io ero nascosto in un’intercapedine di un mio amico. I tedeschi hanno fatto dei rastrellamenti di casa in casa e se vedevano un giovane via, però in comune lo sapevano e ci avvisavano di scappare e mi sono nascosto col padre a settanta ottanta metri dal quartier generale delle SS in una intercapedine: era vicino a casa mia, perché avevo due appartamenti, si chiamava il vicolo Peretti. Sopra al terzo piano avevo un appartamento dove anche lavoravo, lui stava due case più avanti, muro enorme, con portoni, una fortezza, lui era salumiere e faceva tutti gli insaccati a casa: maiali, prosciutti e tutto, teneva un magazzino e dietro il magazzino aveva un’intercapedine in cui si poteva entrare da fuori e che da fuori non si poteva vedere, io mi nascondevo lì quando i tedeschi facevano le razzie e andavano di casa in casa, da lui non venivano. Si chiamava Carrara, loro erano cattolici, e molto credenti, andavano a messa prima, all’alba. Le donne non le hanno toccate perché non sapevano chi fossero e poi non c’erano il più delle volte. 


A Gandino ci hanno aiutato tutti, anche dopo quando andavo su, anche gli amici non stretti “Oscar vien chi, un bicer, beviamo un bicer[52]”, alla sera ero ubriaco e allora restavo lì all’albergo, dormivo lì e ripartivo l’indomani. Ora non vado su perché ho da fare col cuore, ho paura, e poi tutti i miei amici sono morti, di malattia, sono rimaste le vedove, non tutte, i figli sono già differenti, che sa la propaganda comunista o la propaganda fascista li ha presi, e non ho piacere, qualche vedova sì, a volte vengono a trovarmi, comunque indimenticabile sa.


Quando arrivarono i tedeschi, la notte stessa ho preso due famiglie jugoslave, che erano amiche di Ongaro, il cui padre era un notaio e lui stesso un antiquario famoso in Milano. Ci aveva messo a disposizione la sua villa in alta montagna, lì nelle Prealpi bergamasche, ho preso i miei genitori e questi di Zagabria, vecchi, ammalati, bambini piccoli, lui non riusciva a camminare allora con il figlio maggiore l’abbiamo messo su un mulo e su a milleseicento metri. Siam partiti da cinquecentocinquanta metri, insomma è stato un travaglio. Poi un bel momento i tedeschi sono andati via perché avevano paura e poi sono ritornati. 


Noi siamo dovuti scendere perché mio padre e mia madre si erano ammalati, li abbiamo messi sul mulo e giù, su mulattiere, ma erano tornati i tedeschi. In paese c’era uno che aveva fatto il corpo di spedizione in Russia, era quello che mi procurava anche i giornali, veniva ogni sette, dieci giorni e portava tutto quello di cui avevamo bisogno, pane che poi è diventava asciutto, non michette, ma tipo francese, pane buono, non farina di marmo come quello che facevano a Milano, lo mettevo sulla graticola sopra la bragia si scaldava e allora si poteva mangiare.


I tedeschi delle SS e quelli della Muti, fascisti italiani, facevano dei rastrellamenti, andavano così come nelle risaie, ho visto la morte a cinquanta metri, li vedevo venire, allora ho preso la rivoltella, avevo una Colt, mi dicevo ho sei pallottole dentro, cinque a loro e una mi sparo, che vivo a loro non mi dò. Uno del posto, il figlio di un pastore, mi disse io ho un nascondiglio qui dove i miei avi nascondevano le formaggelle, perché quando c’erano gli austriaci i miei avi nascondevano queste formaggelle lì e nessuno le trovava, nessuno lo sapeva, non si vedeva altro, sopra di noi i cespugli densi, ma noi abbiamo visto, a cinquanta metri ho visto venire i tedeschi e davanti quelli della Muti e mi diceva non sparare che non ci vedono. I tedeschi sono stati due tre giorni lì in giro, avevo paura ad uscire, ma volevo vedere dove erano, se c’erano ancora, volevo aggrapparmi per tirarmi su, perché eravamo in un buco, una specie di grotta, ma l’altro mi ha detto “non farlo, io sono nato qui e lo so”, poi si è aggrappato e si è tirato su e appena su una vipera lo ha morsicato, era destinata a me, la mano del signore, ma non è morto perché eravamo giovani, sani, denti buoni, a turno abbiamo succhiato fuori il veleno perché dove la vipera ha morso era rimasto il veleno, tra la pelle e la carne, poi abbiamo messo i fiammiferi: abbiamo rotto otto dieci capocchie, le ho messe lì e l’abbiamo dato fuoco, ha urlato di dolore, però ha disinfettato tutto, si chiamava Battista. Siamo rimasti nella grotta quattro o cinque giorni, avevamo da mangiare.  


Siamo rimasti in montagna sei, sette mesi, ma poi ho dovuto portare i miei genitori in ospedale dove erano clandestini perché c’erano i tedeschi, li hanno curati e messi a posto e allora son tornati lì all’appartamento, e anch’io sono rimasto con loro e non sono tornato in montagna. In montagna avevo avuto contatti con i partigiani per fare l’interprete, perché tra i partigiani c’erano degli ungheresi scappati dalle SS, c’erano tedeschi e jugoslavi, russi dell’armata Vlasov, quelli si son salvati perché conoscevano la menata, come svicolare. Sapevano che parlavo molte lingue e allora non sapendo né l’ungherese, né il tedesco, né il francese mi hanno chiamato, il comandante si chiamava dottor Lanfranchi, era veterinario, un collega del mio cognato. I partigiani erano nascosti in alta montagna e non si fermavano, al massimo due tre ore la notte e poi su in alto. Quando ne avevano bisogno mi cercavano, veniva un corriere e andavo su, quattro cinque ore all’andata e quattro cinque ore al ritorno, mi hanno cercato diverse volte. Mi hanno anche chiesto di partecipare più attivamente, ma gli ho spiegato che per me era un rischio enorme, loro facevano combattimenti, attaccavano, avevano dei morti, dei prigionieri, se io fossi caduto prigioniero mi avrebbero messo subito al muro, gli altri se venivano presi non venivano ammazzati in quanto soldati nemici, anche se partigiani, al massimo sarebbero stati deportati, però avrebbero avuto sempre una speranza di salvarsi perché giovani e sani, io non ero né giovane né sano, sa dopo la guerra ho fatto cinque operazioni, cistifellea, ulcera duodenale, due su tutte e due i piedi, due cateratte, un anno e mezzo fa l’ultima operazione, e tutto questo è regalo dei tedeschi, perché sono loro i responsabili, se non fosse stato per loro non sarei dovuto scappare, perché in montagna io fumavo, sa non avevo più tabacco, sa cosa fumavo: le foglie delle gialle che erano già asciutte e le mettevo nella carta di giornale, che era carta grigia, questo fumavo, insomma mi ha provocato l’ulcera.


Abbiamo saputo della liberazione dalla radio a mezzanotte e allora abbiamo svegliato tutti i nostri amici del paese, pastori, intellettuali, tutti, baldoria, c’era l’albergo accanto a noi, albergo con trattoria, ho pagato due barili di vino e poi diverse bottiglie di vinsanto. I tedeschi appena hanno sentito dell’armistizio con i camion e tutto in due ore hanno sgombrato, andavano verso Edolo, volevano andare in Svizzera o al Tonale.

 

Il ritorno a Milano


Appena finita la guerra siamo tornati a Milano, lavoravo alla borsa: brillanti, napoleoni, dovevo vivere, merce non ce n’era e quindi ho fatto questo per sei sette mesi. Poi quando la situazione si è stabilizzata ho scritto ai nostri ex fornitori e gli ho spiegato che avevamo perso tutto e se si ricordavano di mio nonno e di mio padre e di me che ero stato da loro nel trentasette. Mi hanno risposto di venire immediatamente, che i loro magazzini erano a disposizione e che se non avessi avuto soldi, come sospettavano, di rivolgermi ai loro agenti rappresentanti a Lugano dove avrei trovato tutto quello che serviva per andare da loro. Non avevo soldi nemmeno per andare a Lugano, non avevo niente, soltanto quello che avevo addosso, ho chiesto ai miei amici un prestito, diecimila lire, erano soldi allora, e sono andato a Lugano, loro mi aspettavano avevano già il biglietto, l’avevano già comprato, e mi diedero cento sterline, erano soldi allora. Ho ringraziato e preso l’ultimo treno per Calais, il Calais Maritime verso le undici ero a Calais e ho preso un battello per Dover e da Dover a Londra; avevano prenotato anche l’albergo e il portiere mi disse “Signor Gerber lei telefoni immediatamente al signor Isack, che ha una cosa molto importante da comunicarle, se non c’è telefoni a casa”. Infatti, non c’era più in ufficio, era di venerdì, apparteneva ai chassidim, e mi ha detto di andare domenica mattina. Ho fatto il bagno, mi sono cambiato sono andato a mangiare, poi al cinema. Sabato sono andato al tempio maggiore, nel pomeriggio sono andato un po’ in giro per rinfrescarmi la memoria, perché mancavo da Londra da sette, otto anni. Domenica sono andato da Isack e ho preso la roba. Mi hanno chiesto “Solo questo perché non prendi di più”, gli ho risposto che non sapevo se sarei riuscito a vendere di più, che avrei dovuto poi pagare la merce, ma non sapevo se la mia clientela era viva, loro non potevano avere idea …, mi rispose che anche loro ne avevano viste, anche Londra aveva subito tremendi bombardamenti. Ho comunque preso merce per trentamila sterline, in tre settimane me l’hanno strappata dalla mano, non era rimasto niente, sono ripartito e ho preso il doppio, ne ho pagato la metà e l’altra metà no, così ho ricominciato. Non avevo ancora ripreso la produzione, non avevo ancora gli operai, vendevo all’ingrosso le pelli, vendevo non roba grezza, ma roba conciata e tinta che potevo vendere subito.


E poi mi sono sposato, a Natale del quarantacinque, perché non avevo i documenti, erano tutto in Ungheria, persi, bruciati, chi lo sa. Comunque, il rabbino ha fatto kip e kaduci[53], ma poi mi ha telefonato che non era valido perché non c’era la trascrizione automatica dell’atto dal rabbino al comune, allora abbiamo dovuto sposarci di nuovo, abbiamo preso due testimoni al comune. Il rabbino era dott. Friedenthal, il nonno dell’attuale vice rabbino, perché rabbino capo adesso è il dott. …[54], e lui è vice rabbino. Allora c’era il tempio maggiore in via … prima era il commissariato della zona poi è diventato un tempio, successivamente hanno rimesso a posto il tempio a via Guastalla ed è stato restituito alla Questura centrale e ripristinato il commissariato.


Non abbiamo avuto subito figli, perché i figli bisogna educarli curarli, alcuni anni dopo quando mi sono sentito già a posto e sicuro, abbiamo avuto una figlia, Barbara e in ebraico Sersciaind[55], che è nata nel millenovecentocinquanta. Lei ha potuto fare tutte le scuole, asilo, elementari medie, ginnasio e liceo classico e poi l’università, d’estate andava sempre in collegio in Inghilterra, l’ho portata per imparare bene le lingue, oggi parla bene l’inglese come un inglese, senza accento, senza sbagli grammaticali. Ora abbiamo una nipote, si chiama Isabel.


A mia figlia abbiamo dato anche una educazione ebraica: anche dopo la guerra il mio rapporto con l’ebraismo è rimasto tale e quale come prima. Non faccio però parte delle organizzazioni ebraiche perché a me non piace la politica, diffido di tutte queste cose, beghe discussioni, non mi piace, io voglio la mia tranquillità. Frequento il tempio ogni festa e spesso anche sabato perché sono credente ma non osservante, perché dovevo e devo lavorare, devo mancare spesso da Milano, da casa; quindi, se vado a Bologna non trovo il ristorante kasher, sabato lavoro, non posso dire al cliente oggi non vengo perché è sabato. 


Ho tagliato invece tutti i ponti con l’Ungheria: quando sono tornato a Budapest nel quarantotto non ho trovato nessuno, uno mi diceva “Oscar sei te, il Pietro non c’è più sai l’hanno bruciato”, io correvo a casa a piangere, non ne potevo più, capisce. Ero tornato per vedere cosa c’era ancora perché avevamo nascosto della merce in conceria, non pellicce, ma oro brillanti, tutto quello che non si poteva portare con noi. Non c’era più niente, il cortile della conceria era come arato e li avevano trovati naturalmente, so chi è stato, ma non ho potuto far niente. Dopo tutto quello che ho saputo dopo la liberazione non voglio neanche vederli, da quel momento non leggo l’ungherese, non parlo l’ungherese, soltanto con uno che non sa altre lingue, ad esempio dovendo fare delle aste a Londra, vengono anche loro perché sono residenti in Germania o in Svizzera o in Francia, e se non sanno l’inglese vengono da me, aiutami, allora parlo con loro, con gli altri niente da fare, cancellati completamente, gli ungheresi, la lingua ungherese, la letteratura ungherese, tutti tutti tutti non voglio avere … e gli auguro che gli capiti quello che hanno fatto con gli ebrei: da un milione di ebrei novecento quarantacinquemila non son tornati, questo neanche i tedeschi hanno fatto.


Mia figlia però ha imparato l’ungherese da mia mamma, lei parlava molto male l’italiano e allora parlava l’ungherese o l’yiddish o il tedesco e mia figlia è cresciuta da mia mamma, noi dovevamo viaggiare, lo parla alla perfezione. Dove lavora adesso, una società multinazionale, fa la radiologa, l’hanno mandata per seguire una dottoressa di Budapest che parlava un po’ a stento l’inglese e mia figlia gli diceva in ungherese “Parli in ungherese, io parlo e capisco l’ungherese, mio padre è nato a Budapest”, però non voleva essere in confidenza, però ha combinato l’affare, conosce bene anche il tedesco: è stata a Berlino per conto della ditta, e anche in Inghilterra, a New York, a San Francisco, a Hong Kong, a Tokio, a Okkaido che era l’antica capitale del Giappone, ha preso il marito, i bambini e via, a vedere.


A mia figlia ho sempre dato il consiglio di evitare i tedeschi, evitare gli ungheresi e gli slavi in generale, solo coi latini, anche i francesi si sono comportati molto male: hanno raccolto gli ebrei a Drancy e li hanno consegnati ai tedeschi, adesso è stato condannato Papon[56]  un ex prefetto lì, ex ministro anche di De Gaulle, a vita, ma poi l’hanno lasciato libero data la sua età, ottantacinque-novant’anni; a Drancy ho perso anche il marito di una mia cugina, che si è salvata sola, figlio, figlia tutti nel trasporto di Drancy.






[1] AC Gandino, annotazioni sul retro del foglio di via in data 31 marzo 1943.


[2] Cfr. Sergio Luzzato, Partigia, Mondadori, Milano, 2013, pp. 189-190; USC Shoà Fundation, Intervista a Oscar Gerber, d’ora in avanti citata come Intervista a Oscar Gerber. L’intervista si può ascoltare sul sito del Ministero dei Beni Culturali al seguente indirizzo previa iscrizione motivata e autorizzazione all’accesso. 

http://www.shoah.acs.beniculturali.it/index.php?page=Browse.Collection&id=shoah%3Avhf_it citata.


[3] Il matrimonio verrà celebrato finita la guerra, intervista a Oscar Gerber cit.


[4] Cfr. Mino Scandella, Ricordate che questo è statoebrei internati liberi a Clusone 1941-1945, Quaderni di CLUBI n. 10, Clusone (BG), Comune di Clusone, 2016, pp. 61, 67.


[5] ASBg, fondo Camera di Commercio, busta n. 697, f, 19, denuncia dell’attività economica all’Ufficio Provinciale delle Corporazioni in data 15 aprile 1942 da parte di Oscar Gerber, lettera del Consiglio Provinciale delle Corporazioni al Ministero dell’Interno in data 25 aprile 1942.


[6] Cfr.  Iko Colombi, Memoria di gente ebrea a Gandino, Civit@s periodico di informazione del Comune di Gandino Anno 5, n. 1, marzo 2006, https://www.gandino.it/paper/civits-marzo-2006.


[7] Isrec Bg, carte Schwamenthal.


[8] Cfr. Iko Colombi, Memoria di gente ebrea a Gandino, op. cit. p. 7.


[9] “Alle cinque del mattino scendevo da Cirano a Gandino a piedi nudi, quando incappai in un rastrellamento nazi-fascista. In 40 fummo deportati in Austria e finimmo nel campo di Mauthausen. Ci sono rimasto molti mesi con lo stesso vestito di quando ero stato fatto prigioniero”, in Franco Irranca, Le famiglie «Giuste» sono 25, Gandino.it 4 febbraio 2006, https://www.gandino.it/news/le-famiglie-giuste-sono-25.


[10] Cfr. Sergio Luzzato, Partigia, op. cit. p. 191.


[11] Cesare Augusto Carnazzi era nato a Bergamo il 30 agosto 1914 da famiglia di origini gandinesi, laureatosi in giurisprudenza aveva intrapreso la carriera avvocatizia. Fascista convinto era stato membro della Camera dei fasci e delle corporazioni dal 23 marzo 1939 al 02 agosto 1943, segretario federale del PNF di Aosta dal maggio 1941 al luglio 1943, Capo della provincia di Aosta dall’ottobre 1943, Capo della provincia di Asti dal 3 gennaio 1945 al 24 aprile 1945. Aderisce alla RSI e diventa un Capo della provincia attivo e solerte sia nell’opera antipartigiana che nella persecuzione degli ebrei, anche se nel corso del processo tenuto contro di lui nel 1946 per collaborazionismo oltre a questi aspetti sono emerse comportamenti contraddittori con atti di clemenza e interessamento disinteressato in casi in cui veniva coinvolto personalmente, quello di Ladislao Gerber è uno di questi. Difficile dire se per bontà d’animo sollecitata dal contatto personale o riconoscenza verso persone conosciute, in questo caso, possibile imbarazzo verso la gente del paese dove ha parenti e amici, o per il calcolo lungimirante di chi vuole costruirsi attenuanti per il dopo.  


[12] Archivio personale di Silvio Cavati, intervista a Lina Rudelli di Riccardo Schwamenthal, effettuata in data imprecisata.


[13] AC Gandino, Comune di Gandino, lettera alla Prefettura in data 3 settembre 1945.


[14] AC Gandino, Prefettura di Bergamo, lettera di trasmissione della circolare al Comune di Gandino in data 7 agosto 1945 con allegato il testo della circolare. 


[15] Le interviste a Oscar Gerber e alla moglie Herta Brattspiess sono state effettuate nell’abitazione milanese dei Gerber il 14 aprile 1998. 


[16] Intervista a Oscar Gerber cit.


[17] Il nome del comune deriva dalla trascrizione fonetica, per questo come per Dodrovic, Bolciani e Sotmara non è stato possibile trovare una corrispondenza nelle informazioni geografiche consultabili sul web.


[18] Il padre di Oscar, Salomone è nato a Dohoradzano (Polonia), come è indicato nei documenti di internamento, è possibile quindi che Oscar si riferisca al padre della moglie. Pur non avendo trovato riferimenti specifici, occorre tenere conto che i confini definiti dopo la Prima guerra mondiale hanno diviso molti territori, in particolare la Galizia, tra più stati anche di lingue diverse, con tutte le conseguenze per che ne possono derivare anche per i toponimi.


[19] Si riferisce alla Prima guerra mondiale.


[20] I nomi delle due vie di residenza trovano tuttora corrispondenza nell’attuale toponomastica di Budapest.


[21] Gli allenatori ungheresi del Milan sono stati quattro: Béla Guttmann József Bánás, Lajos Czeizler e József Violak (Giuseppe Viola). Bela Guttman (Budapest 1899, Vienna 1981) è quello che più corrisponde al profilo descritto, non ha militato nel Ferencvaros, ma nell’MTK di Budapest, era ebreo ed è stato allenatore del Milan (1953/55), del Lanerossi Vicenza (1955/56) e del Benfica, squadra brasiliana che ha condotto alla vittoria non ai mondiali ma nella Coppa dei Campioni negli anni 1961 e 1962.


[22] Il kiddush è una preghiera di santificazione all’entrata del sabato nella religione ebraica.


[23] l Bar-Mitzvah (alle lettera, “figlio del comandamento”) e il Bat-Mitzvah (“figlia del comandamento”) si verificano quando i ragazzi ebrei raggiungono l’età matura. Secondo la tradizione religiosa, le ragazze raggiungono l’età della responsabilità a 12 anni mentre i ragazzi a 13. Una volta raggiunta l’età per celebrare il Bar-o il Bat-Mitzvah, i ragazzi e le ragazze sono obbligati a seguire i comandamenti e sono ritenute persone moralmente responsabili delle proprie azioni. 


[24] Purim: festività ebraica che cade il giorno 14 del mese ebraico di Adar; il calendario ebraico è di tipo luni solare: il mese e l’anno si basano sul ciclo lunare, mentre le stagioni su quello solare, con periodici aggiustamenti per ridurne le discrepanze. Adar cade in genere tra febbraio e marzo. Purim, la più gioiosa tra le festività ebraiche, è la festa più amata dai bambini. Ricorda scampato pericolo per il popolo ebraico ad opera di Ester che aveva dissaso Assuero re di Persia e Media dal proposito di sterminare tutti gli ebrei del suo regno. Non vi sono riscontri storici al di la della narrazione biblica; secondo molti storici l’ Assuero biblico è identificabile con Serse I che regnò dal 486 a.C. fino al 465 a.C.


[25] Il nome del dolce è probabilmente in ungherese, difficile anche da comprendere foneticamente.


[26] Trascrizione fonetica.


[27] La Repubblica democratica ungherese nasce dalla rivoluzione scoppiata a Budapest il 31 ottobre 1918. La proclamazione ufficiale della Repubblica avvenne il 16 novembre 1918 e ne divenne presidente Mihály Károly, con questo evento ha inizio anche l’indipendenza dello Stato ungherese. La repubblica comunista viene rovesciata dopo pochi mesi il 21 marzo 1919.


[28] La sinagoga, un imponente edificio costruito nel 1825-26 su progetto dell’architetto Josef Kornhäusel, è tuttora esistente al n. 4 di Seitenstettengasse.


[29] Minhag, dal verbo nahag (guidare, condurre, usare), indica un modo particolare di comportamento, un uso; sia che si tratti di un uso che si segue in una situazione particolare, o che si tratti di un intero sistema di comportamento; indica un modo di praticare in base alle usanze dei padri e che sono sedimentate in una comunità.


[30] La trascrizione fonetica suonerebbe “sbari” o “sibari”, ma non ho trovato un termine foneticamente simile nei siti consultati.


[31] Sistema inventato dal tedesco Franz Xaver Gabelsberger nel 1834.


[32] Trascrizione fonetica.


[33] Nel 1920 l’Ungheria diventa il primo paese dell’Europa novecentesca ad approvare una legge antiebraica, detta “numerus clausus”. La legge mirava a ridurre il numero di studenti ebraici negli istituti d’ istruzione superiore secondo una proporzione numerica nazionale.


[34] Trascrizione fonetica.


[35] Si tratta di Ermanno (Ermin) Tzevì Friedenthal nato a Battaszeh (Ungheria, Impero d’Austria-Ungheria) il 10 marzo 1881, morto a Milano il 26 settembre 1970, rabbino capo di Milano dal 1945 alla morte. Oscar Gerber lo conobbe in occasione del matrimonio dopo la liberazione, quando aveva appena iniziato ad operare a Milano dove si era nascosto durante l’occupazione ed è per questo che lo ricorda come rabbino di Milano, ma nel 1938-1943 Friedenthal reggeva la comunità di Verona e il rabbino capo di Milano era Gustavo Bonaventura Castelbolognesi, costretto a fuggire in Svizzera e poi in Palestina, tornato a Milano morì il 25 luglio del 1947. 


[36] Trascrizione fonetica.


[37] Felice Ottolenghi, figlio di Silvio Ottolenghi e Albertina Moscato è nato in Italia a Torino l’1 giugno 1911. L’Ottolenghi è stato successivamente confinato a Sant’Omobono Imagna dove era presente anche la madre (ASBg, faldone 1 f. 48). Arrestato a Torino il 4 ottobre 1943, è stato deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. Non è sopravvissuto alla Shoah.


[38] Si tratta del maestro Vittore Veneziani, direttore del coro della Scala, allontanato a seguito delle leggi razziali. 


[39] Pinchas Gildingorin (Paolo, Paul Gorin, nome adottato durante la carriera postbellica), nato a Lipsia il 19 luglio 1916, morto ad Amsterdam il 1 aprile 1992. Internato a Notaresco e a Ferramonti fu liberato dall’avanzata degli alleati ed emigrò in Palestina nel maggio 1944 per poi tornare in Europa.


[40] La questura centrale era situata nella Casa professa dei Gesuiti, tra via Agnello e la chiesa di San Fedele, il palazzo venne distrutto dai bombardamenti alleati nel 1943.


[41] Trascrizione fonetica.


[42] Minian è il quorum di dieci ebrei per la preghiera pubblica ebraica.


[43] Quotidiani svizzeri tuttora esistenti.


[44] CSIR Corpo di Spedizione Italiano in Russia, fu una grande unità del Regio Esercito inviato nell’estate del 1941 come contingente a fianco delle forze tedesche impegnate nell’operazione Barbarossa sul fronte orientale contro l’Unione Sovietica.


[45] Salomone Gerber all’arrivo di Herta non era ancora a Ferramonti, giungerà solo il 30 dicembre, ho cercato di individuare tra i sedici Rosenberg presenti dell’Indice Generale lo zio di Oscar: il candidato più probabile, per nazionalità, luogo di nascita ed età è Leo Rosenberg di Ermanno, nato a Budapest (H) il 07.09.1890, giunto a Ferramonti il 16.09.1940 con il gruppo di Bengasi e che quindi aveva avuto la possibilità di conoscere i Brattspies. La diversità del nome paterno di Leo rispetto a quello citato da Oscar non è un elemento discriminante in quanto Hersh Eib è probabilmente il nome ebraico, spesso non coincidente con il corrispondente latino. 


[46] Frazione di Quero Vas.


[47] Non vi sono elementi per verificare la veridicità di questa notizia. 


[48] Il trasferimento di quasi tutti gli ebrei internati a Clusone avviene fra gli inizi di aprile e la fine di giugno del 1943, sul periodo del trasferimento il ricordo di Oscar Gerber è impreciso e tende a confondersi con quello del raggiungimento da parte della famiglia, come indicato nella scheda il trasferimento avvenne il 31 di marzo.  


[49] Nell’anno 1943 i bombardamenti alleati su Milano si svolgono nelle notti fra il 14-15 febbraio e nelle notti fra il 7-8, 12-13, 14-15 e 15-16 nel mese di agosto, il riferimento è a questi ultimi. 


[50] Numerose parole in tedesco non comprese.


[51] Più volte Oscar usa il termine tedeschi anche per indicare i militi fascisti.


[52] Bicchiere in bergamasco.


[53] Kip e kaduci, trascrizione fonetica, forse chuppah e kiddushin.


[54] Il sig. Gerber non ricorda, si tratta di Giuseppe Laras.


[55] Trascrizione fonetica.


[56] Maurice Papon, funzionario dello stato francese, nel 1942 è nominato segretario generale della prefettura della Gironda, ossia principale collaboratore del prefetto di Bordeaux Maurice Sabatier (ma trattandosi di zona occupata, le autorità amministrative erano ridotte a semplici esecutori degli ordini dei nazisti). In tale veste, Papon ha l’incombenza di allestire dei convogli ferroviari, mediante i quali nel corso nel biennio 1943-1944 circa 1.600 ebrei sono trasferiti nei vari campi di concentramento nazisti. Dalla primavera del 1944 collabora con la resistenza fornendo notizie sui movimenti delle SS. Svolge successivamente una brillante carriera, prima nello stato e poi come politico, fino a diventare ministro nel secondo e terzo governo di Raymond Barre (1978-1981). Dopo una lunga inchiesta nel 1997 si apre a Bordeaux un processo-fiume davanti alla corte d’assise della Gironda. Nel 1998 Papon, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti che gli sono imputati, è condannato a dieci anni di reclusione, e diventa così l’unico alto funzionario francese ad essere stato condannato per complicità in crimini contro l’umanità.