Pellegrino e Marcello Padoa
Gandino – Peja
Scheda di famiglia
Pellegrino Padoa, nato nel 1885.
Marcello Padoa, la moglie Giuliana Orefice, il figlio Sergio Padoa, nato nel 1931 e altri due fratelli.
(Capitolo di riferimento: Fuggiaschi e clandestini)
Pellegrino Padoa era un ebreo bolognese, la sua famiglia era originaria di Ostiglia (MN), una famiglia di forti ideali di italianità risorgimentale: suo padre Giustino Padoa, fu il primo volontario garibaldino autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa della campagna del 1866, fu poi medico militare e anche medico onorario della Società di Mutuo Soccorso fra i superstiti della guerra per l’unità d’Italia; gli zii materni di Giustino erano Antigono Coen, morto ufficiale di marina a 25 anni e Gerolamo Coen, medico militare che aveva partecipato a tutte le guerre di indipendenza: 1848, 1859, 1860, morendo nel 1866 per un’infermità contratta in servizio, carbonari erano stati anche gli altri due zii: Scipione e Augusto Coen.
Anche i figli di Giustino: Marcello e Pellegrino, cresciuti in questo clima, allo scoppio della prima guerra mondiale non si erano tirati indietro: Marcello fu ferito e decorato di guerra, Pellegrino, rinunciando all’iscrizione nella terza categoria del proprio anno di leva, che fu richiamata nel 1916, fu mobilitato all’ingresso in guerra dell’Italia il 25 maggio 1915, prestò servizio in zona di guerra fino al 28 luglio 1917, quando fu dichiarato inabile permanente al servizio di guerra e, nel settembre 1918, esonerato dal servizio militare. Non era però rientrato nella vita civile senza cercare di dare ancora un contributo alla propria patria: era entrato a far parte della Lega Famiglie Prigionieri di Guerra di Bologna di cui fu segretario, a titolo gratuito, fino al 30 aprile 1919. Aveva collaborato in quegli anni anche al Popolo d’Italia[1], intessendo frequenti e cordiali rapporti col redattore Alessandro Giuliani[2]. Queste notizie le ricaviamo dalla sua domanda di discriminazione[3] datata 10 dicembre 1938, in cui rivendicò i meriti che lui e la sua famiglia potevano vantare verso l’Italia, e li rivendicò da ebreo nella dignitosa domanda presentata alla Commissione per la discriminazione degli ebrei, domanda motivata dal desiderio di poter continuare il proprio lavoro:
Mi permetto inoltre far presente che questa mia domanda intesa ad ottenere la discriminazione giusta il Decreto L. 17 Novembre 1938 XVII N. 1728 è inoltrata soltanto per un fine morale in quanto non possiedo alcun bene di fortuna né mobile, né immobile mentre sono oberato di impegni ai quali ho potuto finora e solo in parte far fronte soltanto col reddito del mio lavoro e con continui sacrifici. Se perdessi la possibilità di lavorare e di guadagnare sarei nella dolorosa condizione di divenire insolvente.
Non erano molte le famiglie italiane che potevano vantare i titoli di italianità per cui Pellegrino Padoa aveva ottenuto la discriminazione, ma questo non bastava a metterlo al sicuro dopo l’8 settembre, e soprattutto dopo l’ordine di arresto emanato il 20 novembre dal ministro degli interni della RSI, che prevedeva l’arresto per tutti gli ebrei, anche di coloro che erano stati discriminati.
Pellegrino, che probabilmente non ebbe difficoltà, come del resto il fratello Marcello, a procurarsi documenti falsi, trovò un sicuro rifugio a Gandino a casa di un amico, il dott. Raimondo Zilioli[4], medico condotto del paese, dove riuscì a rimanere nascosto fino alla liberazione.
Il fratello Marcello viveva con la moglie Giuliana orefice e il figlio Sergio e gli altri due figli a Bologna. Ho avuto il piacere di intervistare Sergio nella sua abitazione di Milano, è dalla sua intervista[5] e dai documenti che mi ha lasciato in copia che sono tratte le notizie sulle famiglie Padoa.
Racconta Sergio:
I miei genitori erano ebrei, ma non erano osservanti, nessuno dei due, mio padre un po’ di più, ma mia madre assolutamente non si interessava, mia nonna si proclamava libera pensatrice e mia madre anche, mio padre invece era di famiglia più religiosa…
I Padoa vivevano a Bologna dove Marcello era avvocato; Sergio frequentava le scuole statali, ma a seguito dell’emanazione della legge razziale n. 1390 del 5 settembre 1938 fu costretto a lasciarle. Gli ebrei bolognesi, circa mille, aprirono non senza difficoltà una scuola ebraica per consentire ai propri figli la prosecuzione degli studi:
Lì ho frequentato la terza e quarta elementare, era praticamente una classe unica in cui c’era un’insegnante unica che faceva lezione a cinque classi che erano raggruppate nello stesso locale; l’insegnante doveva riuscire a seguire queste classi diverse, ricordo questo, e poi l’ultimo anno c’era anche mia sorella che faceva la prima; mi ricordo di questa insegnante che si dava da fare per occuparsi di tutti questi bambini che frequentavano classi diverse, questo è quello che ricordo.
La legge n. 1054 del 29 giugno 1939 vietava agli ebrei esercenti le professioni, ivi compresa l’avvocatura, di svolgere le loro attività, salvo si esplicasse a favore di altri ebrei. La famiglia di Marcello poteva vantare numerosi titoli di merito nelle lotte per l’unità d’Italia, le abbiamo già descritte nella storia del fratello Pellegrino rifugiato a Gandino. Marcello, che era stato ferito e decorato nella prima guerra mondiale, chiese come il fratello la cosiddetta “discriminazione”, ma anche se la ottenne, non ne abbiamo la certezza, dovette comunque interrompere l’attività professionale.
Nel 1940 i Padoa si trasferirono a Milano, che contava una presenza ebraica di circa 11.000 persone ed era inoltre la città di origine di Giuliana, che qui possedeva alcuni appartamenti. Furono le rendite di queste proprietà e una partecipazione azionaria che permisero alla famiglia una sopravvivenza economica di relativo benessere.
Ho continuato gli studi a Milano, la scuola media, qui c’era una scuola organizzata per cui c’erano le varie classi, io ho fatto la prima media e l’inizio della seconda. Le attività scolastiche erano più regolari rispetto a quelle di Bologna.
Nel 1942 per sfuggire ai bombardamenti la famiglia Padoa sfollò a Viadana (MN) in una proprietà della famiglia di Giuliana. Nell’estate del 1943 si spostarono a Sestole (MO) nell’appennino modenese, è datata 6 giugno 1943 la lettera del procuratore del re di Modena che informava il “Carissimo Marcello” delle pratiche che doveva svolgere presso la questura di Modena e dell’assicurazione datagli dal questore di Modena che il nulla osta al trasferimento sarebbe stato concesso senza problemi e concludeva “Ad ogni modo se le cose dovessero tardare fammene avvertito dicendomi anche quando hai mandato i documenti a Mantova perché io veda se non sia il caso di farli sollecitare da questa Questura.”[6] I Padoa si trovavano ancora a Sestole l’8 settembre. “Quando sono cominciate le voci di deportazione, però noi si era lì sul chi vive per vedere cosa succedeva.” Marcello aveva più di un amico negli ambienti forensi e nella questura, fu uno di questi ad avvisarlo dell’imminenza dell’arresto, i Padoa fuggirono nei boschi e poi presso una famiglia amica che li nascose nel fienile, mentre i bambini erano ospitati dalla bambinaia in un paese vicino.
Così separati siamo arrivati fino a dicembre, una cosa transitoria che non poteva durare anche perché poi le voci correvano, eravamo sempre nella stessa zona e quindi era possibile che qualcuno parlasse che andasse … che venissimo scoperti. E allora le cose sono andate in questi termini: mio padre aveva un collega amico, un avvocato, un fascista che aveva degli agganci in questura, che ci ha procurato dei documenti falsi, carte di identità, carte annonarie, con le quali poi abbiamo potuto vivere sotto false spoglie, non diciamo alla luce del sole, però cambiando completamente zona. Noi avevamo assunto il cognome di Pozzi, le iniziali erano le stesse: mio padre da Marcello era diventato Mario, mia madre da Giuliana, Giulia, anziché Padoa, Pozzi; noi figuravamo sfollati da Ancona, cioè da un posto al di là del fronte per cui non era possibile che facessero dei controlli, per cui noi figuravamo provenienti dal centro Italia che era una delle zone già occupate.
Siccome lo zio fratello di mio padre era ospite lì a Gandino del medico dott. Zilioli, che aveva una casa piuttosto grande quindi aveva possibilità di ospitare, lui ci ha fatto venire lì a Gandino.
I Padoa erano diventati la famiglia Pozzi, il viaggio di trasferimento si svolse senza incidenti, anche se non mancarono i momenti di ansia: nella stazione di Milano i tedeschi e la polizia controllavano i documenti, era la prima volta che le false identità venivano messe alla prova, e Sergio ricorda ancora quel controllo come il momento di maggior paura e pericolo.
La casa del dr. Zilioli, in pieno centro di Gandino, non era un rifugio idoneo a nascondere le identità di ben due famiglie ebree, l’alloggio reperito alla periferia del paese si dimostrò però inidoneo: l’eccessiva umidità mise a rischio la salute dei bambini; tramite il parroco di Gandino, mons. Giovanni Maconi, venne contattato il parroco di Peia, don Giovanni Brozzoni[7], che trovò per loro un appartamento in affitto a Peia Alta, in via Croce Ina, nella casa di Francesco e Ida Marinoni.
Racconta Massimo Bosio loro nipote:
La casa è ancor oggi conosciuta come “la cà d’Ida” perché la nonna, brava cuoca, a richiesta imbandiva tavolate conviviali per le ricorrenze dei paesani e perché negli anni ’30-’40-’50 i nonni ospitavano d’estate i primi turisti e nell’arco dell’anno le “persone di riguardo” che avessero avuto a permanere in paese per qualche giornata, come l’impiegato della banca, il segretario comunale o altri funzionari.
L’identità ebraica dei nuovi inquilini venne però taciuta, per tutti erano solo semplici sfollati provenienti da Ancona, e il segreto sulla loro reale identità fornì una valida protezione fino alla fine della guerra:
Conducevamo una vita normale, senza particolari precauzioni, siccome c’erano dei partigiani lì sopra la montagna, ogni tanto c’erano delle perlustrazioni da parte dei repubblichini per cui c’erano anche dei controlli nelle abitazioni, per cui hanno chiesto i documenti etc., generalità e tutte queste cose, però non abbiamo avuto particolari seccature. Su consiglio del parroco mio padre andava in chiesa la domenica, cioè si faceva vedere in chiesa, gliel’aveva consigliato per non dare nell’occhio, noi andavamo con la nostra bambinaia, non c’erano problemi, ci portava, lei era molto cattolica e osservante, quindi era come dicevo un elemento utile nel contesto della famiglia. La bambinaia è stata una persona veramente preziosa perché è quella che ci ha permesso di mantenere i contatti e andare giù a Milano a provvedere alle provviste e ai rifornimenti, è la persona che assolutamente è stata insostituibile in quel periodo, molto fedele, molto affezionata, come dicevo ci ha aiutato molto.
Occorre ricordare che le leggi razziali proibivano agli ebrei di avere personale di servizio “ariano”, e anche la presenza di una bambinaia cattolica contribuiva a convalidare l’identità non ebraica della famiglia Pozzi.
A Peia siamo stati abbastanza tranquilli a parte la paura che il bambino piccolo non si ricordasse il nome o dicesse il vero nome: mio fratello aveva solo cinque anni. Può darsi che qualcuno possa aver avuto anche il dubbio, ma non mi risulta che oltre al parroco qualcuno avesse avuto sentore della nostra reale identità.
La fine della guerra consentì alla famiglia Padoa di riacquistare la propria identità, senza che questo, a memoria di Sergio, comportasse grande sorpresa, stupore o difficoltà di rapporti, anzi quello con la famiglia Marinoni proseguì negli anni e permane tuttora.
Non così tranquillo fu il ritorno a Milano la casa era stata requisita ed assegnata ad altre persone:
Quindi abbiamo dovuto fare richiesta al commissariato alloggi per poterne rientrare in possesso e per diverso tempo abbiamo dovuto coabitare, noi avevamo due locali per noi perché c’era una famiglia che occupava la casa e ci hanno concesso due stanze dove vivevamo tutti e l’uso di cucina. Siccome abbiamo due entrate qui praticamente potevamo in qualche modo isolarci, però insomma è stato un periodo un po’ difficile questa coabitazione con questa famiglia che pensava di poter … che non saremmo più tornati.
Benché in Italia non si siano verificati gli episodi cruenti nei confronti degli scampati allo sterminio che sono stati documentati nei paesi ad alto tasso di antisemitismo come ad esempio in Polonia, anche nelle città italiane gli ebrei sopravvissuti e tornati alle loro case non furono per tutti i “bentornati”, sicuramente i molti che si erano spartiti i loro beni non furono sempre felici di doverli restituire, ed anche a Bergamo agli ebrei ritornati non fu sempre facile rientrarne in possesso.
[1] Il Popolo d’Italia è il giornale fondato da Mussolini per dare voce all’ala interventista del partito Socialista Italiano, diventerà poi l’organo ufficiale del Partito nazionale fascista.
[2] Alessandro Giuliani, giornalista, uscito con Mussolini dalla redazione dell’Avanti, fu redattore del Popolo d’Italia e caporedattore dal 1932 al 1936, quando fu sostituito per volontà di Mussolini, sospettoso della sua vicinanza politica con Farinacci.
[3] Copia della domanda mi è stata concessa dal nipote di Pellegrino, dr. Sergio Padoa, allora adolescente, rifugiato con la famiglia prima a Gandino e poi a Peia, la copia è conservata nell’archivio personale di Silvio Cavati.
[4] Il dott. Raimondo Zilioli divenne successivamente anche sindaco di Gandino: fu lui a ricevere a nome del Comune dalle mani di Jechiel Dubienski la pergamena con il ringraziamento degli ebrei salvatisi a Gandino.
[5] L’intervista è stata effettuata da Silvio Cavati a Milano, nell’abitazione del signor Sergio Padoa il giorno 14 novembre 2012, il file audio è conservato nell’archivio personale di Silvio Cavati. Tutti i brani riportati sono tratti dall’intervista.
[6] Copia della lettera, su carta intestata “Il procuratore del Re Imperatore” datata Modena 6 giugno 1943.XXI, il testo dattiloscritto con firma autografa è conservata presso l’archivio personale di Silvio Cavati.
[7] Giovanni Brozzoni era nato a Costa Serina il 19 agosto 1876, era stato ordinato sacerdote il 28 maggio 1904 e parroco di Peia dal 1935. È morto a Leffe il 28 gennaio 1969. Don Brozzoni ha anche scritto una divertente raccolta autobiografica di aneddoti: Diario Semiserio di un Parroco di montagna, Bergamo. Edizioni Il Conventino, 1962, utile per inquadrarne la bonaria personalità, in cui però non parla dell’aiuto prestato alla famiglia ebrea, argomento troppo serio per un diario semiserio.