scheda completa

Samaja Ugo

Ugo Samaja


Nossa – Valcanale di Ardesio


Scheda di famiglia


Ugo Samaja, nato a Trieste il 15 marzo 1914 e la sua compagna Lucilla Gobbo nata a Trieste nel 1918.

(Capitolo di riferimento: Fuggiaschi e clandestini)


Il padre di Ugo[1], Geppino, cittadino italiano, si spostò con la famiglia a Milano appena prima dello scoppio della prima guerra mondiale e ritornò a Trieste dopo dieci anni. A Trieste Ugo completò gli studi superiori, iscrivendosi poi a medicina all’università di Padova dove si laureò nel 1939: le leggi razziali permettevano agli studenti universitari in corso di completare gli studi, ma non di curare i malati ariani. Ugo non era di religione ebraica, la famiglia era laica e lui stesso non condivise nella sua vita alcuna religione, anche il suo successivo battesimo fu dettato, come narra, da una scelta meramente opportunistica. Tornato a Trieste conobbe, a casa della sorella, Lucilla di cui si innamorò e con cui iniziò una relazione destinata a durare tutta la vita. Lucilla però era sposata con un giovane tedesco convinto nazista, di cui non condivideva gli ideali politici. 


Nel febbraio 1941 Ugo attraverso un amico, ricevette una proposta di lavoro dall’ospedale di Melegnano[2]:


[…] era pronto per me un posto di assistente medico all’Ospedale di Melegnano, purché prendessi immediatamente servizio il giorno seguente. Gli feci presente per ben due volte la mia situazione razziale e lui rispose: “Lo sanno e non se ne preoccupano. Ho parlato a lungo e vogliono proprio te. Parti questa sera da Trieste; alle 10 del mattino puoi essere a Melegnano. Rivolgiti subito al Direttore dell’Ospedale che ti aspetta prima di mezzogiorno. […] Ti raccomando la massima segretezza.”


Nel marzo del 1942 però un evento casuale interruppe la sua permanenza all’ospedale di Melegnano: nei pressi del palazzo comunale incontrò l’ufficiale sanitario che gli chiese di provvedere al deposito della firma, atto da un anno rinviato perché lo avrebbe fatto individuare come ebreo e messo lui in pericolo di arresto e l’ospedale in una brutta situazione. Fu quindi costretto ad abbandonare l’ospedale e a trovare ospitalità a Milano presso la sorella. Ugo si diede da fare per trovare lavoro, finalmente venne convocato da una ditta di prodotti farmaceutici, il proprietario, dopo che gli ebbe comunicato di essere ebreo, rispose: “Queste sono cose che per noi galantuomini non hanno nessuna importanza. Veniamo al sodo perché ho molto da fare.[3]” 


Nel frattempo era maturata anche la separazione fra Lucilla e il marito e Lucilla aveva deciso di portarsi più vicino ad Ugo, andando a stabilirsi a Ponte Selva, lontana da possibili conoscenze del marito, da eventuali pettegolezzi e dove era normale nel 1943 vedere persone sfollate.


Ugo si trovava ancora a Milano l’8 settembre, quando i tedeschi occuparono la città, ma dopo pochi giorni[4]:


Il signor Pietro (suo datore di lavoro n.d.r.) venne da me, mi consegnò una busta con un bel po’ di denaro (assolutamente non me ne aspettavo tanto) e mi disse: “Lei può decidere quello che vuole, ma la prego, come la pregherebbe suo padre, fugga, perché qui è in pericolo di vita. Non voglio avere rimorsi, vada via, e di corsa.”  Effettivamente il clima era pauroso: tedeschi e fascisti saltavano fuori da ogni parte come gli scarafaggi. Il giorno seguente, mi fu detto, i tedeschi erano venuti a cercarmi a casa, ma non mi avevano trovato: sarebbero tornati anche il giorno dopo il mio abbandono della metropoli lombarda.


Ugo raggiunse Lucilla a Ponte Selva, non senza aver corso il rischio di essere fermato sul tram per Monza durante un controllo, solo la fortuna lo salvò: le due pattuglie che erano salite una sulla carrozza di testa e una su quella di coda del tram non controllarono quella centrale. Da Monza Ugo prese un treno per Bergamo e poi quello per Ponte Selva senza ulteriori incidenti.


A Ponte Selva lo raggiunse il padre, che era fuggito da Trieste e con la famiglia si era portato a Venezia da dove stava per partire per Roma, sperando in un rapido arrivo degli alleati. Ugo però decise di rimanere con Lucilla e di cercare un posto più defilato, dove la loro identità non fosse conosciuta. La scelta cadde su Valcanale, frazione di Ardesio, paese posto alla testata dell’omonima valle, allora raggiungibile solo mediante mulattiere e sentieri. A Valcanale Ugo, facendosi passare per un soldato fuggito, prese in affitto una camera in casa di Rocco Bertuletti, in località Zanetti, a un chilometro dal paese, iniziando il proprio periodo di clandestinità: lui divenne Ugo Bianchi, lei Lucilla Pasini. In una piccola comunità di trecento anime non si può passare inosservati, Ugo e Lucilla frequentavano il paese e si presentarono al parroco[5]:


Un omone alto quasi due metri, sui quarantacinque anni, pessimo parlatore (infatti le sue prediche erano uno strazio), fondamentalmente ignorante anche di cose religiose malgrado la biblioteca ben fornita, ma con un cuore grosso così e un’istintiva psicologia, per cui diceva sempre la cosa giusta al momento giusto, sapeva incoraggiare quando intuiva lo scoraggiamento, calmare quando intuiva l’eccitamento, aiutare e sollecitare l’aiuto altrui quando ne intuiva il bisogno.


Si trattava di don Antonio Magri, un sacerdote “pronto ad aiutare chiunque ne avesse bisogno, ebrei, partigiani, renitenti alla leva, incurante delle eventuali conseguenze; tenuto d’occhio dai fascisti, fu interrogato e diffidato, ma non cessò di proseguire nella sua opera di assistenza ai braccati.[6]” Un sacerdote anche in profonda simbiosi con la sua parrocchia e i suoi abitanti.


Valcanale, scoprirono poi, beneficiava anche di un altro vantaggio: disponeva di una piccola centrale elettrica, con un custode e un telefono collegato direttamente a quella sita al Ponte delle Seghe, località della Valseriana posta all’imbocco della Valcanale. Il custode di quella centrale provvedeva ad avvisare il collega di Valcanale in caso di passaggio verso la valle di fascisti e tedeschi, e questi a sua volta a dare l’allarme, permettendo così ai compaesani di nascondersi, o di nascondere beni e viveri che potevano essere razziati dalle truppe di passaggio per i rastrellamenti[7]


Al parroco Ugo non nascose la propria condizione di ebreo, ma raccontò di aver sposato Lucilla solo civilmente, cosa che non poteva essere vera, viste le leggi razziali. Con il parroco si creò un vero rapporto di amicizia. Fu da un sacerdote predicatore, ospite del parroco, che venne brutalmente informato della razzia del ghetto di Roma e del trattamento che i tedeschi riservavano agli ebrei, il sacerdote fece anche poco confortanti previsioni sulla loro scarsa probabilità di sfuggire alla cattura suscitando l’ira del parroco. Per fortuna l’ospite malaugurante, finito il suo ciclo di prediche lasciò il paese. Ugo e Lucilla rimasero, integrandosi nella piccola comunità, vivendo e lavorando come boscaioli e carbonai assieme alle famiglie della località Zanetti e fuggendo con i loro giovani durante i rastrellamenti: non erano infatti i soli ricercati, molti giovani del posto erano renitenti alla leva o ex soldati sbandati. 


Lungo i sentieri di Valcanale Ugo ebbe un incontro casuale con Piero, medico conosciuto a Milano e comandante partigiano, che lo presentò a Renato[8], comandante di una formazione che operava in zona; Ugo accettò di fungere da medico per la formazione partigiana in caso di necessità. 


Verso la fine della primavera 1944, considerato che l’allarme in caso di arrivo di tedeschi e fascisti veniva dato prima a Valcanale e poi diffuso alle contrade, Ugo e Lucilla si trasferirono da Zanetti a Valcanale[9] per esserne informati più rapidamente, continuando però il lavoro assieme agli uomini di Zanetti. I rastrellamenti erano numerosi e frequenti le fughe nei boschi, fino al “Ral del la crus” o più in su, dove alcune caverne, ben nascoste dalla boscaglia, offrivano un nascondiglio, efficace e mai scoperto, quando i rastrellatori risalivano la costa del monte. L’arrivo di un gruppo di tedeschi, che non avendo percorso la strada di fondovalle non erano stati segnalati, li colse di sorpresa in casa; i tedeschi inoltre si attendarono in paese con l’intenzione di fermarsi per più giorni. Fu don Magri a venire in loro soccorso non solo con le vettovaglie, ma con un abito talare per Ugo e un vestito nero con velo per Lucilla: in caso di bisogno dovevano farsi passare per un sacerdote in visita e per la perpetua del parroco. Per loro fortuna, prima che iniziassero le perquisizioni casa per casa, la caduta di Roma provocò l’immediato richiamo delle truppe in città, dove si temevano disordini.


Ugo e Lucilla riuscirono a giungere salvi al termine della guerra. Tornati a Milano riuscirono fortunosamente a raggiungere Roma dove Ugo poté riabbracciare la sua famiglia, anch’essa sfuggita alla persecuzione.


Ugo e Lucilla trascorsero il resto della loro vita a Milano, dove Lucilla morì nel giugno 1987. Dopo la morte della moglie fu la nuora a convincerlo a scrivere la sua storia che completò qualche settimana prima di morire, otto anni dopo la morte della moglie, all’età di ottantuno anni.


Credo sia significativo chiudere la sua storia con il paragrafo con cui Ugo nel libro inizia il racconto della sua permanenza a Valcanale[10]:


Tutto questo mi autorizza a pronunciare la frase sacrilega che ripeterò ancora: quel terribile periodo fra il 1943 e il 1945 fu luttuoso per tutti meno che per noi due. Per noi fu il periodo più bello della vita perché, malgrado tante fughe e tanti spaventi ai quali io ero “ancestralmente” preparato, e perciò ebbero una importanza marginale, Lucilla e io vivemmo in un mondo migliore, neppure paragonabile a quello abituale: quel mondo tentammo e spesso riuscimmo a portarlo con noi a valle e improntò la nostra vita futura; eppure per molti rimane un mondo sconosciuto perché inconcepibile, guidato solo dall’amore, dal buon senso, dal ragionamento concreto, da sentimenti presenti in gente analfabeta, ma abituata a essere vicina a Dio.






[1] Ugo Samaja, Autopsia di una vita, Un medico ebreo triestino nell’Italia fascista, a cura di Silvia Bon, Centro Isontino di Ricerca e Documentazione Storica e Sociale “Leopoldo Gasparini”, Gradisca d’Isonzo, 2012. Non essendomi stato possibile recuperare una copia cartacea del testo, i riferimenti al testo sono della versione ebook di Amazon, di cui indico il numero di posizione.


[2] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n. 2332.


[3] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n.2851.


[4] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n. 3195, 3207.


[5] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n. 3535.


[6] Cfr. Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete, op. cit., p. 436.


[7] La Valcanale permette il collegamento con la zona dei Laghi Gemelli, di Roncobello e del Monte Arera, zone base di alcuni gruppi partigiani.


[8] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n. 3625. Renato è il nome di battaglia del dottor Fortunato Fasana, comandante della XXIV Maggio formazione di Giustizia e Libertà. Piero è Piero Redaelli, comandante della divisione Orobica di Giustizia e Liberta.


[9] A Valcanale furono ospitati nelle case di Ciro Zucchelli e Giulio Baccardi.


[10] Cfr. Ugo Samaja, Autopsia di una vita, op. cit., posizione n. 3474.