scheda completa

Brattspiess Pablo Szafran Israel

La famiglia di Pablo Brattspiess e Israele Szafran 


Clusone – Sovere-Rovetta


Scheda di famiglia e percorso di internamento: 


Pablo Brattspiess (IG), nato a Bielsko (PL) il 7 settembre 1899, con la moglie Amalia Bronner (IG), nata a Koszarawa (PL) il 28 ottobre 1890, e le figlie Lilly (IG), nata a Bielsko (PL) il 14 ottobre 1920 e Herta (IG), nata a Bielsko (PL) il 23 settembre 1922. Giunti in Italia a Trieste, poi a Bengasi, furono internati a Ferramonti il 16 settembre 1940. Furono confinati a Clusone l’11 ottobre 1941 dove erano presenti all’ottobre 1943; a quella data era già con loro il marito di Lilly, Szafran Israele che era stato spostato a Sovere nel luglio del 1943.

 

Israele Szafran (IG), nato a Lublino (PL) il 7 giugno 1917; giunse in Italia a Pisa nel 1936, fu internato a Ferramonti il 17 giugno 1940. Confinato a Clusone il 2 dicembre 1941, fu trasferito a Sovere (BG) dal luglio al settembre 1943, tornò a Clusone nell’ottobre 1943. 

(Capitoli di riferimento: Gli “internati liberi” in provincia di Bergamo / Fuggiaschi e clandestini)


I Bratspiess erano polacchi di Bielsko nella regione della Slesia, annessa al Reich nel 1938 con la conseguente cancellazione della consistente presenza ebraica ivi residente. Allo scoppio della guerra riuscirono dopo varie peripezie a trasferirsi a Varsavia; nei primi giorni dell’occupazione riuscirono ad ottenere dalle autorità consolari del Nicaragua, dietro il versamento di forti somme, dei passaporti che li qualificavano come cittadini nicaraguensi. Gratuitamente, invece, dall’ambasciata italiana ottennero dei visti d’ingresso per “cure marine”. Con questi documenti riuscirono a partire e raggiungere l’Italia prima che scattassero i provvedimenti di ghettizzazione della popolazione ebraica da parte degli occupanti tedeschi[1]. Nel corso dell’internamento a Ferramonti Lilly ed Herta conobbero e si fidanzarono con quelli che sarebbero diventati i loro mariti: Israele Szafran e Oscar Gerber.


Anche Israele Szafran era polacco: era giunto in Italia da Lwow (PL) già dal 1937[2] per aggirare le limitazioni sugli accessi universitari agli ebrei vigenti in Polonia e aveva frequentato la facoltà di medicina veterinaria presso l’università di Pisa. Allo scoppio della guerra era stato subito internato; racconta Oscar Gerber “Per esempio mio cognato è stato portato via quando stava per dare la tesi di laurea, è partito con due questurini per Pisa e ha dato la tesi in veterinaria, poi subito in questura e dalla questura a Ferramonti di Tarsia, gli hanno lasciato finire i suoi studi.” A Ferramonti Israele conobbe Lilly Brattspiess, che sposò dopo alcuni mesi[3].


Gli ebrei avevano la necessità di uscire dal territorio in cui erano confinati per prendere contatti con le organizzazioni di assistenza ebraiche, a Milano e a Genova, per ritrovare i contatti persi dopo l’arresto e l’invio nei campi di concentramento, per avere notizie dei loro parenti dispersi per l’Europa. In questo venivano aiutati dal dottor Pilade Cassinelli di Clusone con compiacenti richieste di cure specialistiche a Milano o corrompendo, grazie all’aiuto dei facoltosi Diwald, le autorità del luogo. Di questa necessità di notizie è esempio Israel Szafran che cercava i suoi familiari, fuggiti da Lublino e poi dispersi in Lituania, attraverso una lettera inviata per il tramite della Segreteria di Stato del Vaticano. Non conosciamo l’intera lettera, solo una parte del suo testo è riportata nella scheda redatta il 18 settembre 1942 dalla Segreteria di stato “Da 14 mesi sono senza sue notizie. Richieste precedenti non hanno avuto successo. Siamo disperati! Scrivi subito a me e alla madre. Generi, Josef e Noi siamo in buona salute[4]; la persona cercata è il fratello Mordechaj Benjamin Szafran, nato nel 1921, di cui è conosciuto l’indirizzo a Vilnius (Wilno): Rudnicka Strasse 16 W12. Le preoccupazioni di Israele erano ben fondate, ma Mordechaj non poteva più rispondergli: era stato ucciso a Vilnius nel 1942. Nell’ottobre Israele 1943 riuscì a tornare a Clusone per ricongiungersi con la moglie e la sua famiglia.


A Rovetta dopo l’8 settembre arrivò una famiglia ebrea in fuga da Clusone dove erano internati e sfuggita all’arresto grazie all’avvertimento di un impiegato di banca, i Brattspies. Con loro anche il marito di Herta Israele Szafran. Furono accolti da don Bravi che, ormai non più sicuro l’accoglimento in Svizzera, li nascose fino alla fine della guerra in un magazzino della parrocchia, dove erano depositati i mobili lasciati da un emigrante che servirono alla famiglia. I Brattspies ebbero documenti falsi, probabilmente con l’aiuto di Bepi Lanfranchi, comandante partigiano e veterinario.  I Brattspies non avevano risorse economiche di riserva e non avevano tessere annonarie, ma la loro ex padrona di casa di Clusone, presidente della San Vincenzo, riusciva a procurargli qualche tessera annonaria con cui potevano mandare qualcuno a fare la spesa, qualcosa riusciva a guadagnare anche Israele Szafran come veterinario clandestino. Don Bravi li sostenne anche procurando viveri, sollecitando, ovviamente senza dire per chi, anche il contributo dei suoi parrocchiani. I Brattspiess furono dotati di documenti falsi, alcune volte dovettero fuggire e nascondersi nei boschi attorno al paese a causa dei rastrellamenti, ma non furono mai scoperti, anche chi probabilmente sapeva, tacque. La liberazione mise fine alla loro clandestinità. Herta poté ricongiungersi al fidanzato, Oscar Gerber, che sposò alcuni mesi dopo a Milano, dove la coppia ha continuato a vivere. Herta ha raccontato la storia della sua famiglia in intervista alla USC Shoà Fundation.


L’intervista a Herta Brattspies


L’intervista a Herta Brattspies è stata raccolta da Maurina Alazakis per conto della USC Shoà Fundation il 14 aprile 1998 e può essere ascoltate sull’apposito sito curato dal Ministero dei Beni Culturali, indicato nelle note[5], che raccoglie le interviste a cittadini ebrei, italiani o stabilitisi poi in Italia, scampati al genocidio nazista o perché sopravvissuti alla deportazione o perché rimasti in clandestinità durante l’occupazione nazista e la Repubblica di Salò.


Herta narra le vicende della sua famiglia, lei nel racconto è una coprotagonista, nemmeno la principale. L’intervista, come quella del marito Oscar Gerber, è molto interessante perché non parla solo del periodo dell’occupazione tedesca, ma fornisce un quadro della vita famigliare e delle tradizioni di una famiglia ebraica di normale religiosità, dello sviluppo dell’antisemitismo in paesi di notevole presenza ebraica e di radicato antisemitismo, giunto a situazioni di pericolosa violenza già dalla prima metà degli anni trenta. Altrettanto interessante è il racconto delle loro vicende dopo lo scoppio della guerra e della fuga in Italia, del tentativo di circa trecento profughi ebrei di raggiungere la Palestina via Italia e Bengasi e delle vicende dell’internamento.  


L’intervista non è presentata nella trascrizione integrale: malgrado l’abilità dell’intervistatrice vi sono digressioni e salti temporali che renderebbero il racconto meno fruibile, inoltre il poliglottismo e alcune influenze della lingua madre permangono. Il testo presentato è quindi frutto di una rielaborazione, però “conforme” all’originale per contenuti; la forma è quella della storia narrata in prima persona e si è cercato di conservare la freschezza del racconto orale, anche a spese della correttezza sintattica. I fatti narrati sono stati ricomposti nella loro successione cronologica e sono state omesse le digressioni.


LA STORIA DI HERTA BRATTSPIES E DELLA SUA FAMIGLIA

La vita in Polonia


Mi chiamo Herta Brattspiess in Gerber, sono nata il 23 settembre 1922 a Bielitz[6] in Polonia, i miei genitori erano attivi nel commercio: mio padre aveva un deposito dentario e riforniva i dentisti e i medici di tutta la zona, la mamma collaborava dato che lui viaggiava. Noi bambini frequentavamo la scuola, prima la scuola ebraica e poi, verso il ginnasio, una scuola cattolica in un convento che ci forniva sicurezza, perché nel ginnasio statale eravamo attaccati perché ebrei. Il mio papà si chiamava Paolo, Schulim in yiddish, la mamma Amalia. Vivevamo nello stesso palazzo dove abitavano anche i nonni, i genitori della mamma, erano loro a occuparsi di noi dato che i genitori erano occupati per il loro lavoro. La nonna si chiamava Cecilia e il nonno Ignazio, il cognome era Bronner. Ho una sorella che vive in Israele, si chiama Lilli Lea Szafran, lei a sua volta ha una figlia che è sposata e ha due nipoti, ha due anni più di me e fino alla fine della guerra in Italia eravamo insieme, poi loro si sono spostati hanno fatto Aliyah e dopo un mese anche i miei genitori si sono spostati.


Abitavamo a Bielitz, una città abbastanza importante per la produzione, era famosa per le stoffe, e abitavamo in piazza Dunaievski[7], era un generale se mi ricordo bene, in una zona bella; tutto il palazzo era della nonna, quindi stavamo molto bene. Al primo piano abitava un’altra famiglia ebrea e al pianterreno c’erano dei cattolici, ma la convivenza era abbastanza buona. Nelle vicinanze non c’erano altre case di ebrei: la piazza era un po’ isolata perché comprendeva una grande fabbrica di tessuti, i cui proprietari erano amici dei miei nonni, così stavamo abbastanza tranquilli perché ogni tanto succedeva qualche subbuglio contro gli ebrei, ma sempre da parte dei polacchi.


Come ho detto abbiamo frequentato la scuola elementare ebraica e poi fino al ginnasio, poi abbiamo frequentato il liceo, che da noi si chiamava umanistico. La scuola ebraica era una scuola abbastanza tradizionale, ci preparavano, c’erano delle lezioni di religione poi io a parte frequentavo un corso di ebraico; frequentavo volentieri, stavamo bene, era vivere tra noi, voglio ammettere anche che pur essendo in Polonia la nostra lingua a casa era il tedesco, si parlava il tedesco a casa, cosicché i polacchi ci rimproveravano sempre, ma insomma ci veniva, mia madre non ha fatto scuole polacche quindi lei continuava a parlare il tedesco e così anche noi. I nonni parlavano yiddish e noi lo sentivamo tanto volentieri, difatti dove posso acquisto qualche cassetta che mi ricordi la nostra lingua.


La nostra vita, come si diceva una volta, era una vita da famiglia borghese: facevo lezioni di pianoforte due volte la settimana e andavo a ginnastica al Maccabi, lì reincontravo un’altra volta i compagni di scuola e si facevano anche altre conoscenze. Durante le vacanze si andava non lontano: c’erano dei bei paesini in montagna oppure anche sui laghetti e ci andavamo con la nonna che ci accompagnava dappertutto, dato che la mamma era sempre impegnata per via del lavoro, veniva casomai il sabato e la domenica. Avevo anche un cuginetto, si chiamava Bruno[8], era figlio di una sorella della mamma che ha vissuto a Vienna; purtroppo il suo matrimonio si è sfasciato appena nato il bambino e lei è tornata in Polonia e stava dalla nonna perché lei aveva posto, comunque era sempre della nostra famiglia: nostro cugino considerava mio padre come fosse suo papà, la domenica mattina noi si saltava nel letto dei genitori e lui veniva con noi. 


A Bielitz c’erano diverse sinagoghe, c’era la cosiddetta progredita che era la più moderna anche come usanze un po’ meno rigida, una bella sinagoga, credo esista ancora oggi, non so, e poi ce n’erano delle altre dove i miei nonni andavano non per le loro credenze, ma perché l’Hazan[9] cantava molto bene e a loro piaceva e poi era più piccola, più riservata. Noi facevamo la spola tra una e l’altra.


Quando frequentavamo la scuola ebraica andavamo tutti gli shabbat al tempio, dopo gli studi impegnavano di più e allora, siccome al sabato bisognava andare a scuola, essendo una scuola cattolica, era diventato quasi impossibile. Le feste però le osservavamo tutte, a casa nostra si mangiava kasher. Per lo shabbat, prima di tutto, il venerdì sera era quasi più importante, la nonna preparava le alal[10], poi preparava tutto il pesce come piace a noi alla polacca, ghefilte fish[11] il pesce ripieno, certi brodi, che oggi sono proibitissimi, e il primo piatto poi era sempre per il mio papà, perché c’era un rispetto tale tra lei e il genero, e poi quando si faceva il kiddush[12], la mozà[13] insomma sono cose che ricordo con tanta nostalgia perché purtroppo qui, si potrebbe fare, ma è diventata una vita un po’ … Pesach[14] in famiglia era bellissimo, cominciavamo ad andare in solaio a ritirare tutte le stoviglie e i bicchieri che avevano quel bordo in oro zecchino, bicchieri rossi in cristallo bellissimi per il vino. Il nonno preparava lui il vino con dell’uvetta speciale che ordinava attraverso un negozio di delikatessen e lì arrivano cose anche dall’estero, era un’uvetta chiara non quella scura, e lui la tagliava a pezzettini e poi la metteva in barattoloni enormi che erano di un litro, un litro e mezzo e lo metteva fino ad un certo livello, non ricordo cos’altro aggiungeva e poi lo metteva sopra la stufa economica, perché allora c’erano solo quelle, ma erano bellissime, e questo lo preparava settimane prima, aveva uno stupendo profumo. Tutti partecipavano e poi ricordo, non c’entra il pesah, ma per esempio i cetrioli che noi si comprava, il nonno li metteva via nei barili con delle meline acide che contribuivano a inacidire naturalmente i cetrioli e metteva via i crauti, perché in Polonia queste verdure erano una base alimentare, non c’era molta scelta. Avevamo anche un orto che confinava con il fiume Bialka[15] che divideva Bielitz da Biala, che erano due cittadine, e in questo orto seminavamo di tutto, verdure, fiori, noi passavamo delle ore, quando lui lavorava, ma quando poi venivano a maturazione noi eravamo lì e ci godevamo proprio.


La nonna aveva un deposito di mobili antichi: comperava i mobili antichi. C’erano tanti nobili decaduti di origine tedesca, la popolazione di Bielitz era perlopiù di lingua tedesca in quanto prima della Prima Guerra Mondiale apparteneva all’impero Austroungarico. Lei conosceva tutte queste famiglie nobili che si disfacevano della roba, volevano vendere e lei era un’esperta in questo, il nonno collaborava. Poi avevano una donna che li restaurava, una donna, ricordo che usava alcool denaturato per la loro pulizia e ogni tanto si faceva un goccino e la trovavamo ubriaca per terra, erano scene che a raccontarle oggi sembra una barzelletta. La casa era grande, sotto c’era il magazzino dove erano sistemati tutti questi mobili, però curati bene: il nonno andava giù e spolverava le specchiere dei mobili, ad averle oggi qui varrebbero un capitale. La mamma dopo che è morta la nonna ha lasciato tutto lì, è uscita non dico a piedi nudi, perché le scarpe le aveva, è il nostro destino, cosa vuol fare. Ripenso alla nostra giovinezza alla nostra prima infanzia con piacere perché vivevamo una vita proprio col cavot[16], anche perché la nonna era molto rispettata.


Mio padre veniva da Leopoli, durante la Prima Guerra Mondiale era di stanza a Bielitz, la mamma l’ha conosciuto, e così si è fermato e si sono sposati, ma anche lui amava questa città. Mio padre parlava molto bene il tedesco e molto bene il polacco perché aveva studiato a Leopoli, aveva fatto il ginnasio e poi ragioneria. Prima ha lavorato nell’ufficio di una fabbrica dove costruivano gabbiette per animali. Ricordo che il nonno per farci stare tranquilli ogni tanto portava a casa un uccellino che riusciva a catturare nel parco buttandoci sopra il cappello. La nonna si arrabbiava “Ma che cosa fai”, lui lo faceva volare in cucina, lei che aveva tutti gli scaffali pieni di ceramiche e porcellane temeva, ma il nonno gli rispondeva ”Lo faccio per i bambini perché loro si divertono”, e allora papà forniva le gabbiette. So che un venerdì sera nella mozà ha detto “Ma anche all’uccellino piacerà un po’ di bro(…)[17]“: sa lì da noi si beveva il kummel[18] lo chiamavamo alash[19], era un liquore dolce, ma a base di kummel, e mio padre ha intinto un pezzetto di pane, al mattino abbiamo trovato l’uccellino morto. 


Eravamo tutto il giorno dalla nonna, si mangiava dalla nonna, la cucina dei miei genitori non era quasi mai usata, perché stavamo con la nonna: mamma non aveva molto tempo e la nonna si dedicava a noi, ci accompagnava anche se c’era qualche ballo coi ragazzi, si vestiva a puntino e poi era una donna moderna per i tempi di allora era quasi …, fumava, noi gli preparavamo le sigarette perché le faceva a casa: i miei zii da Vienna gli portavano il tabacco chiaro, kulsiciam[20],  mi ricorderò sempre quella marca, era biondo e lungo, non era tagliato fine, erano filamenti interi, e c’era una macchinetta e c’erano cartine già preparate con il filtro ed erano vuote, e noi le mettevamo nella macchinetta che si apriva con un clic, lei la riempiva di tabacco e la chiudeva, spingeva dentro ne veniva una sigaretta magnifica, facevamo a turno io e mia sorella. La nonna se c’era da combattere per qualcosa diceva “Non pensateci, ci penso io”, perché la mamma era molto più severa, ma lei era molto permissiva. Ripenso con tanta nostalgia a quei tempi.


Ho frequentato le elementari alla scuola ebraica, per le superiori sono dovuta andare in una scuola di religiose cattoliche presso un convento, durava 5 anni, quindi dal 1934 al 39, poi è iniziata la guerra. Avevo appena cominciato a fare la maturità, avrei voluto continuare a studiare ma quando è cominciato la guerra non è più stato possibile. Mia sorella, avendo due anni in più, aveva iniziato le superiori nel cosiddetto ginnasio statale, che era retto e frequentato perlopiù da antisemiti: erano figli di ufficiali e impiegati e i professori stessi erano antisemiti, non avevano nessun riguardo, non consideravano … l’insulto più semplice che dicevano quasi giornalmente era “Ebrei rognosi andate in Palestina”. Mia sorella, dopo una, due, tre volte, aveva alzato le mani e le aveva date a una, era la figlia di un ufficiale, e quella era caduta dalle scale. Quando mia sorella è tornata a casa ha raccontato tutto. Il direttore ha fatto chiamare mia madre e le ha detto “Lo sa che cosa ha fatto sua figlia?” e lei ha risposto “Lo so, me lo ha detto, se non siete voi a poter difendere, loro si devono difendere da sole, mi dispiace, ma io tolgo la mia figlia di qui”. C’era questo convento, era un ginnasio convento tipo qui le suore Marcelline o Orsoline, una congregazione austriaca di Vienna, Santa Hildegarda, ed era un ambiente scelto, costava anche abbastanza e per noi rappresentava una sicurezza: difatti per l’ora di religione veniva un rabbino, mi ricordo ancora il nome del rabbino: Hirshfelt, era un rabbino rosso di capelli con una bella barba rossa, proprio il ritratto di un rabbino come deve essere. Lui veniva e dava lezione nella palestra, perché là non c’era il crocefisso: ovunque c’era il crocefisso, essendo un convento. Li stavamo bene, anche con i professori: per esempio quello di tedesco, che era una nobile molto gentile, ci diceva “Voi lo parlate bene il tedesco, se volete andar fuori nel giardino intanto io organizzo” perché i polacchi avevano grandi difficoltà ad imparare questa lingua perché il tedesco è difficile, perché gli mancava quel po’ di intelligenza… In quella scuola noi ragazze ebree eravamo la maggioranza, perché iniziato uno, anche gli altri hanno fatto lo stesso: era veramente pericoloso. Ricordo che mio cugino andava alla scuola pubblica, ma non c’era più quella classe che lui prima frequentava e uscendo da scuola lo picchiavano, bisognava andarlo a prendere, erano sempre delle scene e siccome mia sorella era più svelta nell’adoperare le mani, andava a prenderlo e con lo zaino menava a destra e a sinistra. A quei tempi non c’era ancora sentore di Hitler, in Polonia l’antisemitismo nasce con loro: mi ricordo che la donna di servizio domenica andava a messa e qualche volta ci invitava a fare un giretto e siamo andati, ci ha portati in chiesa e sentivamo il prete dal pulpito che diceva “Non comperate dagli ebrei perché tutti gli ebrei sono comunisti e che vadano in Palestina”, questo dal pulpito dopo l’orazione che aveva fatto. Lo diceva in polacco, si può immaginare, oggi sono antisemiti anche senza gli ebrei, non c’era ancora Hitler, l’antisemitismo era radicato in polonia, ma in origine viene dalla Russia. 


A Bielitz abbiamo vissuto un pogrom[21], ancora prima di Hitler. La piazza dove si trovava la nostra casa era tutta chiusa, ci si arrivava solo con una stretta stradina, si chiamava via Stretta, Engestrasse, uscendo da questa stradina sulla strada principale c’era una trattoria retta da un ebreo, in questa trattoria al sabato sera venivano certi operai a mangiare, ma più che altro a bere. Uno ha mangiato, si è ubriacato e non ha voluto pagare, questi trattori erano muniti anche di un’arma, perché erano in mezzo a questa gentaglia, lui si è trovato in mezzo a questo gruppo di ubriaconi, ha preso paura, ha sparato e ne ha ferito uno. Subito si sono raggruppati sono venuti fuori e da questo è nato un pogrom. Andavano di casa in casa e rovistavano, da noi non sono venuti perché il portinaio della fabbrica ha sbarrato quella strada stretta che sfociava nella piazza perché aveva visto cosa stava succedendo, e questo negli anni trenta, non ricordo esattamente quando, avevo otto-nove anni. Ricordo che incendiavano e poi squarciavano i piumoni che si usavano nei letti, la città era piena di piume che volavano, hanno rovinato le vetrine e tagliavano le barbe a chi incontravano. Per noi era una cosa strana perché queste cose avvenivano in Russia o in quei piccoli paesini adiacenti alla Russia, ma non era mai successo in una città così, con questo voglio dire che i polacchi erano esecutori perfetti, anche senza Hitler, non c’era ancora Hitler.

A scuola c’erano anche non ebrei, e c’era gente che ci teneva alla religione e c’era una educazione religiosa cattolica, le messe e poi le preghiere. Al mattino loro le dicevano, noi ci si alzava, loro si segnavano con la croce, noi no, d’altronde era una scuola religiosa come qui in un convento, però ci garantivano la sicurezza e dei buoni studi. In quel ginnasio abbiamo imparato il latino e io lo studiavo volentieri, come se avessi previsto che un domani mi sarebbe servito per l’italiano.


1939: l’occupazione nazista e la fuga


L’estate del 39 è stata terribile, mio padre avrebbe voluto fare le valigie, prendere quello che si poteva portare e venire in Israele, in Palestina. Lui era un sionista di vecchia data, però non era possibile: la mamma non voleva staccarsi dalla famiglia dai nonni, che erano ormai vecchi e ammalati. Per poter andare in Palestina bisognava avere un affidavit e un permesso speciale che bisognava comperare e non era facile ottenerlo. Quando è cominciata la guerra a Danzica la Polonia ha mobilitato e hanno richiamato in primo luogo gli ebrei per mandarli in prima linea, guardi la cattiveria, altrimenti toglievano la cittadinanza, però se c’era da crepare li mandavano in prima fila: difatti nella battaglia della Westenplatte, la battaglia per Danzica che i polacchi non volevano cedere ai tedeschi, il primo caduto era un ebreo ed era il figlio della famiglia ebraica che stava nella nostra casa, il cui fratello si è salvato. Erano tre fratelli, il primo è emigrato: con uno zaino ha attraversato la Turchia è entrato clandestinamente in Israele ancora prima del 1930, lavorava a raccogliere gli aranci, oggi vive ancora grazie a Dio, l’altro più giovane si è salvato, quello di mezzo è stato richiamato ed è morto subito. I genitori avevano un negozio tipo Peck[22], non così grande perché la città era più piccola, era non solo una salumeria, ma aveva prelibatezze come il caviale, da noi il caviale non era così raro e costoso, e poi salmone affumicato e cose simili. Mia sorella era sua amica, ricordo che da bambino non voleva mangiare e mia sorella era sempre di buon appetito e allora sua mamma la chiamava: “Lilli, vieni guarda che Carlo[23] non vuol mangiare, tu sei brava a mangiare chissà se ti vede mangerà anche lui”, insomma lei mangiava perché le piaceva mangiare, se l’è ritrovato in Israele e sono ancora in amicizia. 


Mio padre cercava di avere questi permessi, ma ormai era anche tardi e allora si cercava di andar via perché era sicura l’occupazione della Slesia da parte dei tedeschi, dato che eravamo a due passi dalla Germania. Mio padre conosceva un grossista di Varsavia da cui si serviva e questi gli ha chiesto di andare a Varsavia e occupare la sua casa se voleva allontanarsi da Bielitz; non avevamo un altro modo di allontanarci e allora siamo andati, siamo partiti noi bambini e le due zie, papà era rimasto a casa con la mamma perché la nonna era molto ammalata, il nonno nel frattempo era morto. Siamo andati a Varsavia, il secondo giorno dopo che eravamo arrivati, è scoppiata la guerra[24]. Al primo bombardamento sono saltati tutti i vetri e abbiamo dormito con le finestre aperte, era un appartamento di dieci locali. Papà ha preso l’ultimo treno, tutti gli uomini se ne andavano da Bielitz, la mamma è rimasta con la nonna perché non poteva lasciarla e non poteva portarla, papà ha preso l’ultimo treno con tanti altri ebrei, ma il treno si è fermato dopo Cracovia e non è più andato avanti, tutta la gente è scesa e ha proseguito a piedi: volevano andare in Russia a Misrak[25], poi la gente si è divisa perché chi andava lì, chi andava là. Mio padre ha trovato sul treno un controllore, pensi che non si vendevano i biglietti, non esisteva più neanche la biglietteria, e gli ha chiesto il biglietto, “Guardi io non l’ho fatto, nessuno sul treno ce l’ha perché mi han detto questo è un treno che fa evacuare non ce n’è”, “No, no, lei venga con me al comando” e ha cominciato una marcia attraverso i boschi con questo controllore. Mio padre ha detto tra di sé “Questo controllore mi deruberà e mi farà fuori”, aveva con sé un bel po’ di soldi perché non sapeva fin dove andava, senonché dopo un po’ l’ha lasciato andare, lo ha lasciato in mezzo al bosco. 


Attraversato il bosco si è trovato sulla strada statale, dopo un po’ di tempo è passata una macchina e mio padre si è messo in mezzo alla strada per fermarla, a bordo c’era un alto ufficiale polacco con il suo attendente che guidava e gli ha detto “Che cosa vuole”, mio padre parlava molto bene il polacco “Guardi io sono sfollato per paura di essere preso dai tedeschi e mi reco a Varsavia perché ho lì l’altra parte della famiglia” e quello gli ha detto “Guardi un po’ di strada la facciamo insieme, poi io devo deviare”, è stato gentile lo ha caricato, dopo ha trovato un altro treno ancora funzionante e in poche parole è arrivato a Varsavia. Quando è arrivato all’indirizzo nostro, che era in via Orla 6, ha suonato alla porta e noi siamo corsi a vedere e abbiamo visto un vecchio con la barba, tutto sbrindellato e non volevamo aprire, allora ha cominciato a gridare “Apri, apri sono io sono io il tatus, sono il papà”, non lo avevamo riconosciuto. È difficile descrivere in pochi giorni come era diventato, un po’ per la paura, un po’ per le peripezie. Insomma c’era un altro pezzo della famiglia a casa, ma della mamma nessuna notizia perché non c’era né telefono né niente. Quando i tedeschi si sono installati per bene e la situazione si è fatta più tranquilla abbiamo deciso di tornare io mia zia e il mio cuginetto: la zia non voleva lasciare il figlio perché aveva paura non ubbidisse all’altra zia e a mia sorella e così se l’è portato dietro, era un guaio perché era un bel bambino, però si capiva che era un bambino ebreo: era scuro di capelli, occhi neri, un bel bambino insomma. Siamo seduti sul treno, mia zia aveva un aspetto piuttosto tedesco, io avevo queste trecce lunghe, siamo arrivati sul posto di confine tra la Polonia occupata e la Germania, al ragazzo abbiamo preso un giornale perché leggesse e si nascondesse un po’, così siamo riusciti ad arrivare a Bielitz, era sera tardi, come dei ladri siamo andati a casa. La stessa scena dalla mamma: non voleva aprire, la nonna ormai era morta, lei era sola a casa e si preparava perché aveva affittato un appartamento ad Auschwitz, perché si diceva che entro il 25 dicembre doveva essere arianizzata Bielitz e tutti gli ebrei espulsi. Non sapeva come raggiungere la famiglia a Varsavia, non aveva più notizie, le ferrovie e tutte le comunicazioni non funzionavano, allora aveva affittato un appartamento ad Auschwitz che era una bella cittadina dove mio padre aveva tanti clienti: dottoresse, dentiste, medici, tecnici. Lei aveva un bel ricordo di Auschwitz, c’erano degli ebrei.


Quando è morta la nonna, ci ha raccontato la mamma, c’era ancora qualcuno della comunità, ma gli sono stati di grande aiuto i nostri vicini di casa che erano anche grossisti in tessuti ed erano loro amici; loro erano molto cattolici e il prete che frequentava la casa le ha chiesto se poteva esserle utile in qualche maniera, non che le avesse detto che poteva seppellirla nel loro cimitero, ma voleva difenderli, comunque è riuscita a farla seppellire.


Quando siamo arrivati i tedeschi avevano già espropriato il deposito e avevano messo uno che aveva occupato il negozio, ma che era abbastanza umano e aveva detto alla mamma “guardi io le lascio due giorni di tempo se lei pensa di riuscire a sistemare le sue cose”. Qualche cosa la mamma è riuscita a tirar via, c’era oro perché vendevano anche l’oro per fare le capsule, quel poco che era rimasto. Mamma è venuta con noi poi abbiamo cominciato a vedere come si poteva uscire da Varsavia. Dalla comunità abbiamo saputo che diversi consoli vendevano passaporti, subito se ne è fatto commercio, l’unico che li regalava era l’ambasciata italiana, ma l’abbiamo saputo dopo: a chi si presentava cercavano di fargli una discendenza lontanamente italiana e gli davano il passaporto di emergenza, in tempo di guerra si poteva farlo anche senza interpellare i propri paesi.


Noi siamo riusciti ad avere dei passaporti del Nicaragua, li abbiamo pagati 25.000 dollari in oro, in monete, per ogni passaporto; quello che costava di più era il passaporto svizzero, quasi il doppio, e questo lo facevano sulla pelle della gente. Le zie però non hanno voluto venire, noi quattro eravamo decisi, loro volevano prendere un passaporto, ma non l’America, lo volevano di un paese tipo Inghilterra, ma non esisteva. Noi avevamo questi passaporti e siamo rimasti d’accordo che, se non avessero trovato, anche loro si sarebbero recati da questo console[26]. Siamo andati a Varsavia al consolato italiano per prendere un visto per l’Italia, ricordo che c’era una fila enorme di tutti gli altri cittadini. Noi avevamo l’unico passaporto a cui spettava il visto subito, gli altri dovevano aspettare. Siamo andati io e mia sorella e ci hanno chiesto per quale motivo volevamo andare in Italia, gli abbiamo risposto che intendevamo fare le sabbiature vicino a Trieste, non mi ricordo, ma è un posto famoso. Ci hanno risposto che ci spettava il visto per un anno e che costava sei lire: non avevamo i soldi e allora siamo andati, ci siamo fatte prestare il denaro e l’abbiamo preso.


Varsavia era stata distrutta in modo terribile e specialmente dalle parti del ghetto, i bombardamenti sono durati un mese e durante quel mese quando c’erano gli allarmi non ci dicevano niente, perché non ci facevano entrare nei rifugi polacchi, non ci lasciavano scendere proprio. Mi ricordo che nella casa dove stavamo il cortile era fatto a cimitero, c’erano delle tombe improvvisate di gente che era stata colpita. Vedevamo gli aerei sopra di noi, scendevamo per strada tenendoci per mano io il papà, mia sorella, mio cugino e le zie: ogni tanto dalle schegge che partivano venivano delle fiammate, la cenere, i capelli bruciacchiavano, noi eravamo fermi attaccati al muro perché non potevamo entrare; nel rifugio portavano dentro i cavalli e i soldati che erano scappati si rifugiavano per primi, questi erano gli eroi polacchi. Per il mangiare era una cosa tremenda, non si poteva trovare niente neanche con i soldi, non ci mancavano i soldi.


Distribuivano il mangiare per strada con delle cucine da campo, ci siamo decise io e mia zia ad andare giù a prendere almeno un po’ di pane, ma il portinaio ci aveva denunciato, per fortuna quello che faceva la guardia alle file era un soldato della Wermacht, è venuto vicino a me e mi ha chiesto in tedesco “Sei giudea”, oggi avrei negato per furbizia per paura, gli ho risposto sì, “Lo sai che non possiamo dare da mangiare agli ebrei, però per oggi prendi” ed è stato più generoso di quel porco polacco. Diventava una vita impossibile, si andava per strada e si sentiva di rastrellamenti, portavano via specialmente gli uomini, poi abbiamo visto che cominciavano a isolare certe strade e c’erano depositi di mattoni per costruire. Noi ci chiedevamo cosa avrebbero fatto, pensavamo che volessero sostenere i muri per non farli cadere, nessuno ha immaginato che erano per il ghetto. Un bel giorno siamo riusciti ad avere i visti e a racimolare tutte le carte e così siamo partiti: non c’era più una stazione a Varsavia, era stata distrutta, le rotaie erano in mezzo alla strada, siamo saliti, eravamo gli unici sul treno, può immaginare che paura e siamo andati verso il Brennero e Trieste, siamo arrivati a Trieste, avevamo il visto italiano.


Tentare l’Aliyah 


A Trieste abbiamo chiesto dove era la comunità, perché uscendo dalla Germania si potevano portare solo 10 marchi, e abbiamo chiesto un aiuto. Ci han detto potete dormire nel tempio: c’erano diversi che dormivano con le brande nel tempio. Lì abbiamo sentito che si faceva un Aliyah clandestina. Abbiamo cercato, attraverso la Croce Rossa, di comunicare con i nostri zii a Londra, gli abbiamo fatto sapere che volevamo andare in Palestina e di mandarci dei soldi. Sono arrivati attraverso la Croce Rossa e abbiamo pagato non ricordo più che cosa, era un trasporto illegale, dovevamo andare a Siracusa per imbarcarci, eravamo oltre trecento. A Trieste ci siamo fermati circa un mese, abbiamo preso in affitto un appartamento piccolino e abbiamo aspettato il momento di andare in Israele. Ci facevano fare ginnastica perché dicevano che la nave non sarebbe arrivata in porto, ma ci avrebbe scaricato su barche per poter arrivare a nuoto, c’è da immaginarsi come avrebbero fatto mamma e papà, ma abbiamo tentato perché ci siamo detti in qualche modo riusciremo; continuo a pensare che fosse tutto finto perché dall’inizio hanno pensato che non saremmo arrivati a niente. Non ricordo chi era l’organizzatore, ricordo che poi è finita male perché è scappato con i soldi, e noi siamo rimasti a Bengasi proprio come degli stupidi, però la gente ha sempre sperato, invece siamo rimasti lì a Bengasi fino al 10 di giugno.


Da Trieste siamo andati in treno a Siracusa tutti insieme: eravamo legali, eravamo in Italia col visto, e penso che anche tutta l’altra gente sia partita normalmente, non ricordo a che ora ci siamo imbarcati, ma subito. C’era uno che dirigeva questa troupe, ha preso un sacco di botte dagli altri anche se lui non c’entrava, dato che organizzava solo il gruppo, quello che aveva preso i soldi era lontano. Nel gruppo c’erano persone molto religiose e poi un po’ di tutto; la maggior parte veniva dalla Germania e dalla Polonia, erano i paesi dove il pericolo era maggiore. 


L’equipaggio della nave era italiano e ci ha portato fino a Bengasi e siamo sbarcati perché era previsto che sarebbe arrivata un’altra nave per portarci in Israele: per il viaggio era stata chiesta una bella cifra, non ricordo quanto, però mia mamma era stata molto previdente: ha depositato i soldi presso una persona che era di Bielitz come noi, era una persona per bene che conoscevamo da tanti anni, e gli ha detto di non consegnare i soldi finché non avessimo messo piede sulla nave, così ha potuto riavere i suoi soldi, perché questa persona che conoscevamo ce li ha ridati. Doveva essere una bella cifra e ci è servita perché a Bengasi, come tutti gli altri, abbiamo dovuto alloggiare in albergo, in attesa dell’altra nave.


A Bengasi l’atmosfera era buona perché pensavamo di partire presto, quando si scendeva a Bengasi si scrutava il mare, mi sembrava di essere nell’operetta che aspettava Pinkerton, e noi si aspettava con tanta fiducia finché è arrivato il 10 giugno e gli italiani ci hanno arrestato tutti quanti perché eravamo ebrei, anche se noi avevamo la cittadinanza del Nicaragua che non era in guerra.


Ci hanno caricato sui camion e ci hanno portati via a metà strada tra Berna e Barce, nel deserto, ci hanno messi tutti in una caserma: se c’era una caserma dovevano esserci anche altre cose, però noi non potevamo uscire, salvo una volta alla settimana quando eravamo autorizzati ad andare a Bengasi a fare qualche spesa o andare a vedere dei conoscenti. 


Era una caserma ma non aveva dotazioni per soldati, si c’erano delle docce, ma solo in certe ore della giornata, c’era poca acqua, tutto il resto, il rancio avveniva lì, e fuori non c’era niente, c’era la sabbia, non valeva nemmeno la pena uscire. Una volta la settimana venivano dei camion con cui si poteva arrivare a Bengasi, lì c’erano ebrei, poveri sa, che stavano lì in fila chi con una scatoletta di sardine, chi di limoni o qualche altro frutto o tonno, e ce li davano, e i per venerdì sera ci invitavano a casa loro a mangiare.


Nel nostro gruppo c’era un nostro amico, Miki Bieheler, ci siamo conosciuti lì, lui era dirigente della Scenker, era di Budapest, una persona in gamba, era rimasto intrappolato qui, e parlava bene l’Italiano. Era il nostro traduttore, ma anche un amico e insieme a lui i miei genitori sono andati a mangiare da una famiglia ebrea, erano tutti seduti per terra come nelle loro usanze, per noi avevano preparato delle piccole scagnette, dato che avevano capito che per noi era difficoltoso. Erano bravi, poi loro bevevano una specie di liquore e dicevano che faceva bene contro le zanzare, contro tutto, anche se il minimo che avevano era il tracoma, quando l’abbiamo saputo eravamo preoccupatissimi, perché loro erano buoni, ma sa a convivere con questa malattia …[27] Ci davano da bere quel liquore ed era forte, mia sorella aveva problemi di roba forte perché cominciava a tossire, allora Miki le diceva “Senti Lilli, girati e metti la mano dietro e rovescialo così almeno pensano che l’hai bevuto”, questo me lo ricordo. Si mangiava un cous cous così buono, lo facevano con l’agnello, anche se io mi tappavo il naso perché non mi piacevano né agnello né capretto, insomma erano bravissimi, buoni proprio. Dopo cena tornavamo in caserma anzitutto perché non avremmo potuto dormire da nessuna parte. In caserma eravamo liberi, giravamo liberi perché non c’era scopo ad andare via, in un paese di cui non conoscevamo la lingua: parlavano l’italiano, ma era tutto nuovo per noi.


Non ci hanno mai interrogati, ci hanno detto che ci avrebbero rimpatriato in Italia, non parlavano del carcere, non parlavano del campo di concentramento, hanno detto che Mussolini si sentiva in obbligo di farci ritornare perché qui sarebbe diventata zona di guerra, forse avevano ragione, hanno perso e riconquistato quel luogo tre volte e alla fine l’hanno perso.


Siamo partiti da Bengasi sempre nel 40, eravamo arrivati in giugno e siamo partiti verso settembre, abbiamo trascorso lì i mesi più caldi, c’era gente che faceva delle scenate, c’erano due vecchi che davano fuori di testa perché lei si è trovata nel bagno e non c’era l’acqua e lei era mezza nuda, insomma mi ricordo una notte tragica. Nessuno però ha subito violenze da parte degli italiani, anzi c’è stata tanta umanità.

Siamo stati imbarcati su una nave chiamata Esperia, non era una nave molto grande, in quella nave abbiamo vissuto brutti momenti: era una nave civile destinata al trasporto delle truppe, siamo stati messi nel fondo della nave, nella stiva, tutti insieme perché dicevano che bastava un notte di navigazione per arrivare a Napoli, senonché c’erano delle incursioni degli inglesi da Malta e la rotta non so come era. Due o tre volte è suonato l’allarme, senza luce e fermi. Ricordo le urla della gente, i bambini che gridavano. Il viaggio è durato si una notte, ma a noi era parso un tempo lunghissimo, siamo arrivati tutti storditi perché la nave aveva avuto anche dei blocchi, forse avevano voluto navigare a tutta forza, era un trasporto terribile.


L’internamento in Italia


Quando siamo arrivati a Napoli ci hanno portati a squadroni al carcere: fuori c’era la gente che guardava perché ci avevano ammanettati e poi portati dal porto a Poggioreale a piedi. La gente chiedeva in napoletano chi fossimo: “ebrei, ebrei”, e allora ci hanno buttato delle arance un po’ di soldi, il napoletano sarà magari anche un imbroglione, però ha cuore, lo preferisco. Poggioreale a me ha fatto tanto senso, io oggi soffro di asma, però allora, pur senza asma, a vedere queste finestre così, erano come un buco in giù e si doveva guardare in su da una fessura. Mi hanno subito diviso dai genitori perché ero minorenne, e hanno diviso gli uomini dalle donne e quello era tragico perché la mamma era abituata a sapere tutto subito del papà, insomma la non c’era il modo. Quella che faceva la traduttrice era proprio una sadica, la mamma si è sentita tante volte male di notte e per avere un po’ di valeriana dovevamo urlare: io non sapevo neanche che mamma avesse bisogno della valeriana, l’ho sempre vista in gamba, non avevo mai pensato.


Eravamo noi tre, io dalla parte dei ragazzi, mia mamma mia sorella e un’altra che non ricordo e il papà era dall’altra parte; ero in un piano alto assieme a dei bambini, ho chiesto se potevo riunirmi in famiglia, e loro “no no, guardi che lei rinuncia al mangiare” mi hanno spiegato, non capivo bene: figuriamoci davano l’aringa al mattino, ai bambini. Non eravamo solo noi ebrei: nel nostro gruppo c’erano pochi minori, c’erano anche i comuni, figli dei detenuti, la nostra non era una cella, era una sala, eravamo una ventina. Ci hanno tenuto lì perché a Ferramonti non erano ancora pronte le baracche, pensi non avevano trovato altro modo di sistemare le persone che in un carcere.


Non avevo la possibilità di incontrarmi con i miei, nell’ora del passeggio avevo la possibilità di stare sopra all’ultimo piano sulla terrazza e loro scendevano, allora ho chiesto se potevo riunirmi, ne abbiamo parlato, papà non lo abbiamo visto, però era riuscito a farci avere sue notizie, gli uomini erano dall’altra parte. C’era questa traduttrice che era una sadica sa, a lei ci si rivolgeva per esempio se avevo il mal di denti, allora mi ha detto che c’era il dentista e che si poteva andare e ci sono andata; altri le hanno chiesto, io non parlavo italiano, se sapeva dove ci avrebbero mandato e ha risposto che ci avrebbero rimandato in Germania, eppure sapeva bene che stavano finendo le baracche a Ferramonti e che era questa la nostra destinazione. Un bel giorno ci hanno detto che si partiva e che si andava in un campo di concentramento in Calabria. Quando è arrivato il momento del trasferimento, era mattino, ci hanno legati, fuori c’erano quei camion che trasportano i prigionieri quando vanno a un processo, erano autobus grandi e un po’ alla volta ci hanno portati alla stazione, e anche lì la gente ha chiesto perché eravamo ammanettati, e poi ci ha portato delle arance me lo ricordo sempre.


Ferramonti


Diversi fra di noi parlavano l’italiano, quindi era più facile e anche più sicuro, perché un traduttore che non conosce può tradurre quello ed altro, invece se è cointeressato …, e poi erano ebrei. Ci han portati alla stazione e poi ci hanno caricato su una littorina che ha viaggiato un bel po’ da Napoli per arrivare a Ferramonti di Tarsia. Quando siamo arrivati a Ferramonti Scalo ci hanno fatto scendere dal treno, è arrivato il direttore con la sua macchina, era scoperta tipo spider e lui trasportava le donne, il resto andava coi camion: era gentile, era un ex questore di Salerno che è diventato direttore, non mi ricordo il nome[28], era gentile, era bravo, in genere tutti erano bravi.


Era della polizia, erano tutti della questura e c’era uno tra loro che si chiamava Formica, questo lo ricordo, che aveva accompagnato mio suocero, allora non era mio suocero, a Milano in treno perché ha avuto tre o quattro giorni di licenza per andare a trovare la moglie e le tre figlie che erano libere a Milano: avevano preso solo mio marito e il padre, guardi che roba. Questo Formica ha accettato dei doni dalla famiglia perché mia suocera ha cercato di avere un amico in lui, ma era bravo sa, si è comportato umanamente. 


Siamo arrivati che sarà stato settembre o ottobre, non ricordo bene, anche se il mio compleanno è il 23 settembre allora non era una cosa importante, tutto questi allora erano pensieri proibiti. Forse era fine ottobre e quando siamo arrivati a Ferramonti si è aperto un nuovo mondo, certo molto limitato. Ferramonti era collocato in una distesa e in fondo c’erano le colline, c’era una gran calma e venendo da un luogo come il carcere, così affollato, era un rilassamento anche per i nervi; ero riunita con i miei e ci hanno assegnato il nostro appartamentino: due stanzette e un cucinotto, fuori c’era il gabinetto in comune. Tutte le famiglie avevano il loro appartamentino, poi c’erano le baracche per i single, per gli uomini. Le baracche non erano in muratura, ma di quell’affare che sembra malta, erano bianche e pulite, e questo dopo il carcere che brulicava di pidocchi e cimici, una cosa bestiale.


Avevamo il nostro bagaglio, o meglio quello che ne era rimasto: partendo da Varsavia avevamo diciotto valigie, ma quando siamo arrivati al confine olandese ci hanno respinto, gli olandesi, ma devo dire che erano gente di frontiera, più tedeschi che olandesi, difatti c’è scritto “nicht loslassen” non lasciato passare, pur avendo avuto i biglietti col vagone fino a Londra, li avevamo comperati ed erano di solo transito. 


Il treno è partito e ci hanno lasciato giù. Mi ricordo che c’era con noi mio cugino e che i tedeschi sulla frontiera, prima di attraversare tra la Germania e l’Olanda, l’hanno costretto a saltare, gli han detto: “bastardo ebreo salta che così saltano fuori le monete d’oro”, si figuri non avevamo niente, alla mamma hanno tolto persino la fede i tedeschi. Lei dice il bagaglio, avevamo quello di giorno in giorno. Quando eravamo a Bengasi, prima di essere arrestati, avevamo comperato della roba dato che avevamo i soldi, quindi non dico molto, ma per il cambio e questo abbiamo potuto portarlo con noi sia a Napoli che a Ferramonti. A Ferramonti ci hanno fatto le vaccinazioni antimalariche, che non sono servite a molto, poi avevamo una paga di tre lire al giorno, gli uomini cinque e la moglie due, guardi che capitali, insomma è bastato per fare la spesa, da mangiare. Ognuno aveva la sua cucina e mamma cucinava, veniva a comperare allo spaccio, c’era della roba e si comperava, io mi ricordo che l’ingegnere che guidava la parte anche commerciale mi diceva: “Se tu hai bisogno di qualcosa, qui c’è”, si chiamava Tassani il dirigente del spaccio. Io andai a lavorare allo spaccio, alla cassa: per trovare lavoro si chiedeva, noi eravamo tra i primi arrivati, quindi abbiamo avuto più facilità, ma poi c’erano due-tremila persone. Lo spaccio era abbastanza fornito, mia sorella lavorava nella tabaccheria e anche il suo compagno, lei si occupava della roba non alimentare tipo merceria, sapone e cose del genere, lui era un medico faceva la parte dei tabacchi. La merce arrivava dai paesi vicini, i fornitori venivano da noi e portavano il pane tutte le mattine. Si acquistava coi soldi della diaria che però non erano sufficienti, dipendeva da come uno mangiava, se mangiava pane e cipolla bastavano, per fortuna qualcosa ci era avanzato dei soldi, poi io e mia sorella guadagnavamo, avevamo uno stipendio, non ricordo più quanto. 


A pagarci era l’amministrazione, c’erano gli uffici, c’era un segretario, c’era il direttore e c’era l’ingegnere una brava persona, lui aveva progettato questo campo, l’aveva costruito ora si occupava del suo funzionamento. Papà invece non era riuscito a trovare lavoro, non c’erano dei lavori che sapesse svolgere, c’erano i calzolai che lavoravano sugli zoccoli, perché camminavamo tutti sugli zoccoli perché era tutta terra, e anche gli zoccoli, come qualsiasi cosa, bisognava comperarli, il campo forniva a chi voleva le scarpe, quelle scarpe che bisognava tenerle assieme e se pioveva si nuotava, perché le strade del campo erano tutte di terra.


Nel campo c’erano baracche per famiglie e baracche per gli uomini soli, i servizi erano fuori, un gruppo di baracche, magari due avevano un servizio. Per le famiglie c’era un gruppo di case che avevano un servizio. C’era l’acqua anche in casa e la luce, pensi la combinazione quando abbiamo preso questa casa e abbiamo fatto diversi lavori, quello che ha lucidato il marmo veniva di lì perché l’ho sentito dal suo accento, era meridionale, gli ho chiesto di dov’era, era un ragazzo, “Sono di vicino a Cosenza, vicino al campo”, e allora gli ho chiesto se era ancora lì, “Si dice ci sono le baracche, stanno su per scommessa, sono malandate però ci sono, han detto che era un campo di concentramento”, era nel sessanta.


Il campo era circondato da filo spinato, ma non c’era né corrente elettrica né niente, c’erano questi questurini che facevano l’appello agli uomini, venivano in baracca, senza uscire, facevano l’appello, contavano, tutte le mattine, venivano dentro anche da noi, lasciavano fuori il moschetto venivano dentro, ma era un rapporto amichevole. Poi venivano quelli del mercato nero, portavano le uova attraverso i reticolati e ricordo che mio suocero le andava a prendere, veniva un carretto con le angurie che poi mi è venuta una diarrea con queste angurie. Una volta siamo andati anche a fare il bagno: c’era un fiume e siamo andati. A volte accompagnavano chi voleva fare il bagno, così si sentivamo i bombardamenti, eravamo dalla parte opposta di Crotone e Crotone veniva bombardata terribilmente perché era un porto, il cielo diventava rosso e a Ferramonti si vedeva. Nel campo si circolava liberamente, avevano fatto anche un campo di calcio, c’erano le partite, giocavano ebrei polacchi contro i tedeschi e mio marito era uno dei pochi che aveva le scarpe bullonate perché lui ai suoi tempi giocava a Budapest nella riserva della nazionale.


Ho conosciuto mio marito lì, a Ferramonti, appena entrati il primo giorno: stava giocando a ping pong tra due alberi, avevano fatto un tavolo e stavano giocando a ping pong. Lui era già lì, aveva fatto un mese di San Vittore, poi era stato a Campagna di Eboli e da lì era stato mandato a Ferramonti. Mio zio lo conosceva e voleva sapere se c’era anche lui: gli avevano detto che l’avevano mandato in un campo, e dopo che l’ha trovato me l’ha fatto conoscere. Nel campo c’erano ebrei di diverse provenienze, polacchi, tedeschi e qualche francese ma poca roba, cecoslovacchi, ungheresi, la maggior parte erano ebrei polacchi, nel trasporto che lo aveva portato lì la maggior parte erano dei neolaureati in medicina, studenti, fra loro c’era anche mio cognato, che poveretto non c’è più, che non aveva nemmeno fatto in tempo a fare l’esame di stato, l’ha fatto dopo la guerra. Non c’erano dei goym[29], io almeno non li ho mai visti, ci si conosceva tutti. Una volta al giorno facevano l’appello e poi eravamo liberi di fare tutto quello che volevamo, c’erano le scuole, c’erano gli asili c’era l’infermeria c’era il teatro, c’erano dei concerti. Fra di noi c’erano alcuni musicisti che avevano lavorato alla Scala e erano finiti lì, insomma c’era una vita culturale piuttosto elevata, c’era anche il teatro, ma non è che mi piacesse, non mi interessava tanto perché proponevano soggetti di una volta.


Mia sorella si è sposata lì, poi è andata a farsi sposare in municipio a Tarsia; il rabbino che l’aveva sposata, il rabbino Adler, li ha sposati, ma dopo un po’ di tempo gli ha detto che lui non era autorizzato a fare matrimoni e che forse il loro matrimonio non era valido, e mia sorella era così infelice perché non sapeva cosa fare, e gli ho detto “ti risposi un’altra volta con un altro rabbino”, tanto i documenti li aveva.


A Ferramonti ci si industriava: c’era anche chi serviva il tè, c’era la teiera mobile: erano marito e moglie, lei faceva i dolci e lui era sempre con il tshaynik, la teiera, in mano e dava il tè, anche il caffè, ma era specializzato in tè. La moglie ha preparato diverse torte per il matrimonio di mia sorella e c’erano invitati, era da vedere chi la pettinava: mi sembrava un teatro anche questo, ero giovane, non immaginavo così un matrimonio. Aveva conosciuto il marito lì, a Ferramonti, mio cognato era veterinario, si era laureato a Pisa, era di Varsavia e ha perso tutta la famiglia a Varsavia: solo il padre e un fratello erano in Israele e hanno cercato in tutti i modi di tirarli fuori da Varsavia, non sono riusciti. Loro erano andati in Israele attraverso la Turchia, ma sono morti sua madre, sua nonna e quattro altri fratelli a Varsavia, lui si è salvato perché era qui.


Mamma e papà hanno accettato di buon grado questo matrimonio, era un bravo ragazzo, una persona simpatica, parlava bene l’yiddish, anche se era un yiddish diverso dal nostro, era un yiddish con lo sfondo russo, invece da noi si parlava più yiddish sotto il tedesco, perché ci sono delle provenienze… l’yiddish più bello è quello lituano di Vilnius, è un yiddish a ricamo proprio bello, infatti ci sono gli autori di Shalom aleichem[30], Shalom arsa[31]. Comunque il matrimonio si è svolto con tutto il cerimoniale previsto, anche se mia sorella prima del matrimonio non era andata a fare il bagno rituale, quello lo ha fatto qui a Milano alla mikveh[32], ma non è una cosa obbligatoria, mia mamma si è sposata normalmente, la sua famiglia non era chassidim e non ci è andata perché non era richiesto. Si sono sposati sotto una chuppac[33]. Il tempio era una baracca, il Sefer Torah[34] è ancora sotto la galleria del tempio di Ferramonti, l’ho letto sul bollettino, è una cosa commovente. Dopo il matrimonio però mia sorella non ha avuto una baracca per famiglie, è dovuto venire suo marito da noi, hanno sistemato così. Non ricordo altri avvenimenti particolari, la vita al campo era diventata normale, sa uno non ci faceva più caso non ci mancava la libertà, non ci sentivamo prigionieri.


L’internamento libero a Clusone


Siamo stati lì abbastanza poco, 18 mesi[35], poi dopo abbiamo fatto la domanda per venire su per stare in libero confine. Solo gente sposata, o meglio, la gente che formava un nucleo famigliare poteva chiedere il libero confine, l’ha fatto anche mio marito perché col padre formavano un nucleo. Lui voleva venire su per stare vicino alla mamma e così anche noi abbiamo chiesto Bergamo, la provincia di Bergamo, perché mio marito, allora mio fidanzato, aveva la sua famiglia qui a Milano, da Bergamo a Milano non c’era nessuna distanza. Siam venuti su, forse in aprile, doveva essere in primavera[36]. Non era difficile avere l’internamento libero: è stata lanciata questa proposta, si vede che avevano bisogno di sfollare un po’ il campo perché ne arrivavano altri, e siamo venuti a Bergamo, lui ha fatto un po’ di trafila perché prima l’hanno mandato a Quero.


Siamo stati mandati a Clusone, 680 metri, una bella cittadina, poi mio marito è stato trasferito a Gandino, ancora meglio, ancora gente più alla mano, abbiamo conservato fino al giorno d’oggi rapporti così buoni con quelli che son rimasti, perché tanti non ci sono più.


A Clusone si abitava un appartamento e una volta alla settimana di domenica si andava a fare l’appello dai carabinieri, questo era l’obbligo; ci passavano anche lì la stessa cifra che ci davano al campo e basta, non avremmo dovuto allontanarci senza permesso fuori dal comune, avevamo i nostri documenti e insomma noi ci trovavamo bene. Avevamo trovato una casa, ma il lavoro non si poteva fare, mio cognato faceva lavoro nero come veterinario, andava dai contadini, si è fatto conoscere dato che era un chiacchierone, ha conosciuto un sacco di contadini e loro gli hanno detto “ma perché non viene a visitare le nostre bestie”, riceveva un compenso in natura: chi uova, chi latte insomma un pollo ogni tanto, quindi riusciva a trovare un po’ di cibo. Anche noi ci siamo fatti una cerchia di amicizie: la gente era curiosa di conoscerci e siamo capitati sempre in famiglie che erano dalla nostra parte, cioè contro gli oppressori, e allora si ascoltava radio Londra. A luglio quando è caduto il fascismo, Badoglio, hanno cominciato a dire ma è finita la guerra e qui e là.


La fuga e la clandestinità a Rovetta


Dopo l’8 settembre è stato brutto perché i rastrellamento si sono fatti più spessi e poi si era acquartierata nel paese anche la SS, ed è cominciato un tempo triste: il cassiere della banca ci ha detto di ritirare il nostro sussidio perché non sapeva se sarebbe stato possibile dopo “È meglio che ve ne andiate, andate in montagna, perché qui si prepara qualcosa: hanno già chiesto di consegnare gli elenchi degli ebrei”, allora siamo andati dai nostri amici a Rovetta, dove c’era questo prete[37] e lì abbiamo abitato in un magazzino dove c’era del mobilio lasciato da un emigrante che era andato in Svizzera, nel mezzo del paese, con la terra battuta per terra. Lì abbiamo vissuto fino al 45 perché i genitori non parlavano italiano ed era difficile per loro andare in montagna a nascondersi, noi giovani avremmo potuto farlo, era molto triste. Il prete era molto bravo, don Giuseppe Bravi, era una persona veramente, il vero prete di campagna, non il prete di città che cerca il lusso. Lui aveva le scarpe scalcagnate, allora non avevano neanche lo stipendio, la perpetua era la sua sorella; predicava al mattino a tutte queste donnette bigotte, perché son tutte piene di chiesa, di comunioni, e diceva “È inutile che venite qui a pregare quando non fate un’azione buona, io ho da sfamare cinque bocche, non chiedetemi chi sono, se potete portare quello che potete vi sarei grato”,  e ogni tanto arrivava, ad esempio per Pesah, lui sapeva dalle sue carte quando era Pesah, e ci ha detto “Guardate che adesso non potete più mangiare il pane”. Anche quando facevano i rastrellamenti lui ha provveduto ci ha fatti andare in montagna: eravamo nascosti in mezzo ai fienili e poi quando siamo tornati abbiamo cercato in ogni modo di essergli riconoscenti. Tutti gli anni quando veniva mio cognato gli portava dei doni, poi gli faceva delle spese, insomma per poter vivere un po’ meglio. 


Anche la popolazione, era il motivo per cui siamo rimasti in Italia, perché mio marito con la sua professione, col suo mestiere avrebbe potuto andare in tutto il mondo, ma non si vive di solo pane e avere intorno gente che ti ha fatto del bene, quello era, oggi credo è cambiato molto.


Mio padre non è mai uscito, aveva paura, neanche la mamma, io facevo la staffetta, andavo di sera e pedalavo, la bicicletta me l’aveva regalata mio marito, una Bianchi, era pesante, ma era buona. Tornavo a Clusone dalla nostra ex padrona di casa che era presidente della San Vincenzo, a sua volta riceveva delle carte annonarie e con queste carte potevamo fare la spesa, cioè le davamo a qualcuno che comperava per noi. Una volta nell’andare mi ha fermato una pattuglia di carabinieri, avevo lo zaino e uno sa scrivere l’altro sa leggere, come si dice dei carabinieri, alla fine uno mi portava la bicicletta, l’altro parlava con me; poi gli ho detto “Adesso devo pedalare perché mi aspetta il mio fidanzato” e allora mi ha guardato e ha detto “È così giovane, già il fidanzato” e io ”E sì devo pensarci” e me ne sono andata, ma non mi avrebbero fatto del male perché non era gente di… era ora di coprifuoco e io avevo osato, portavo una sciarpa come la portano i contadini,  avevo una carta di identità col nome falso Baradelli, Giulia Baradelli, e ne ho procurato una anche a mio marito, perché c’era un amico di mio cognato che era tra i partigiani[38] e loro avevano la possibilità di avere le carte: il suo nome falso era Giovanni Battista Nodari, che era molto più vecchio del suo aspetto, insomma l’hanno fatta così.


Notizie ce le portava il prete e poi c’erano dei contadini che avevano la radio e cercavano di captare le notizie. Era brutta perché sapevamo cosa avrebbero fatto se ci avessero pescato e poi c’erano fuori questi avvisi per consegnare ogni ebreo, davano 10.000 lire, erano tanti allora. Una volta siamo scappati all’ultimo momento: è arrivato questo maresciallo dei carabinieri con altri due e un camioncino per prenderci e non ci ha trovati, allora è andato dal prete e ha detto “Ma lei parroco non sa dove sono andato questi confinati?”, ah dice “Sono andati via, sono in Svizzera, hanno attraversato e sono andati”, così ce l’abbiamo fatta, e altre volte insomma abbiamo dovuto all’ultimo momento cambiare perché i rastrellamenti in montagna erano terribili sa, terribili, mia mamma che si sentiva male in mezzo a quel fieno e i topi che ballavano, non topi di fogna, topi di campagna, ma sempre topi sono. Abbiamo dovuto più volte cambiare rifugio. Al mattino si mangiavano le castagne, mio padre le tagliava e le metteva sul fuoco, era una cosa, sembravano non dico dei picnic, ma di addestramento militare. E il tempo purtroppo non volava, ce n’è voluta, man mano la guerra si spostava sempre più, sempre più ed era sempre più pericoloso perché il concentramento dei fascisti era talmente grande qui che … poi si aveva sempre paura di qualche denuncia, perché sa in mezzo alla gente non tutti sono benevoli.


Poi è arrivato il giorno della liberazione, ero andata al mattino a comperare del latte in montagna con una conoscente che sapeva la strada, quando son tornata mi hanno detto: “la guerra è finita”, siamo corse a casa, mio padre non voleva crederci, per due giorni è rimasto lì, non ha voluto uscire finché è arrivato il prete che gli ha detto guardi che è finita.


E’ necessaria prima di proseguire una precisazione: Herta a questo punto del racconto opera una sovrapposizione di memorie: narra come vissute in prima persona avvenimenti ed emozioni che devono essergli state riferite: sarebbe stato materialmente impossibile in quei giorni avere notizia dell’accaduto e raggiungere Milano da Rovetta nelle 7-8 ore in cui il cadavere fu esposto. E’ inoltre imprecisa la notizia sulla partecipazione di don Bravi alla fucilazione dei militi della Tagliamento al cimitero di Rovetta: don Bravi, dopo essersi opposto ed essere anche stato per questo minacciato dai due partigiani che effettuarono l’esecuzione, vi assistette per dare i conforti religiosi ai morituri.


E poi ci ha detto “andiamo a vedere Mussolini che pende, venite con me”, era un capitano dei bersaglieri, ha preso un biroccio con un cavallo e siam venuti di lì a Milano, io mia sorella e il prete, quando siamo arrivati in piazza Loreto guardi uno spettacolo, ho visto una donna che gli sputava addosso, ha perso due figli, gente che urlava, era uno spettacolo terribile guardi mi faceva ribrezzo nel senso che non era umano sa, però quella gente lì ha subito dei colpi che non so come hanno fatto a sopravvivere, pioveva quel giorno lì guardi e poi siamo tornati e allora lui ha detto “Sono soddisfatto, ho visto quel delinquente che è finito così” che era, non era mica comunista e non era neanche partigiano, è lui che ha guidato una pattuglia che hanno fatto fuori sedici o diciotto della squadra muti che erano terribili fascisti[39], che erano ragazzi, quindici, sedici, diciassette anni, dietro il cimitero lì a Rovetta, noi si sentiva da casa i colpi e lui ha detto che è giusto, da prete,  che è giusto perché hanno impiccato tanti lì in piazza, lasciavano fuori anche tre giorni che la gente guardasse, hanno fatto delle stragi, incendiato interi paesi. 


Dopo la liberazione hanno anche tagliato i capelli alle donne, quelle che collaboravano coi i tedeschi: mio marito ha venduto due parrucche da teatro a quelle che erano rasate, gli hanno chiesto, visto che aveva la famiglia a Milano, se poteva procurargliele. Lui che ne sapeva? L’hanno portato dove stava di casa una parrucchiera da teatro, aveva delle parrucche con i boccoli, è venuto con quelle, guardi delle cose che veramente a raccontarle sembrano barzellette e invece.


Dopo la liberazione


Dopo la liberazione io e il mio fidanzato abbiamo cercato di venire a Milano, volevamo vedere che cosa fare, volevamo sposarci e vedere se lui poteva cominciare a lavorare e avere una casa, la prima cosa era preparare la casa. C’era un ufficio in piazza della Scala, dove c’è via Case Rotte, lì c’era l’ufficio per le case sequestrate, libere da poter avere, ci siamo messi in fila, c’era un certo ragionier Basola, anche lui della comunità, che ci ha detto di aspettare che avrebbe cercato di darci un indirizzo. Vicino alla stazione centrale, via Vivaldi, c’era una villetta di un fascista che era in campo di concentramento che poteva farci avere, se ci fosse stata dentro la roba potevamo metterla in cantina. Era grande, così ho radunato un po’ di ebrei per riempirla. Sono andata in via Unione, c’era il palazzo Odescalchi che era diventato come una caserma, lì c’era il tempio dove mi sono sposata, c’era l’infermeria, l’infermiera che dirigeva tutto è morta qualche anno fa, e poi c’era tutta la gente che portava e andava a prendere notizie, c’era il mercato del tabacco e il mercato nero. Ho radunato un po’ di persone, c’era una famiglia Weiss che aveva due bambini e ho detto loro se volevano venire con noi senza nessun compenso, tanto per riempirla.


I miei genitori erano ancora a Clusone, noi eravamo qui senza casa, io andavo e venivo, nella villa siamo andati quando abbiamo trovato la gente per riempirla perché non volevo prendere una villetta e poi fare la principessa, c’era un bel giardino con tanti frutti, venivano dentro i ladri di notte e poi ho dovuto pagarli, perché poi i proprietari, con cui siamo diventati amici, anche se erano dei fascisti, hanno capito perché ho loro spiegato che non siamo entrati portando via la roba, non avevo la casa, “Anche a noi è capitato così”, siamo diventati amici.


Mi sono sposata a dicembre, nel frattempo mia sorella ha fatto Aliyah[40], ci ha sposato il rabbino Friedenthal, e intanto io facevo la spola con i miei, poi dopo un mese sono andati anche i miei, prima sono andati a cinecittà che di lì c’erano i trasporti che li portavano in Israele e hanno abitato per circa un anno in uno srift[41], quei così di latta, finché è arrivata la roba da Londra, il mobilio e i soldi, così hanno comperato una villetta e hanno abitato da persone come erano abituati.


Io mi sono fermata a Milano con mio marito, lui faceva il pellicciaio, ma è stata dura perché non c’era della merce quindi si lavorava con delle porcherie che c’erano qui, capretti e anche mal conciati: era tempo di guerra e non c’erano neanche cose, stavano in piedi da soli, abbiamo comperato una macchina, io ho imparato a cucire, sa era un ricominciare una vita e poi mio marito ha cominciato a andare a Londra. Mio marito prima della guerra importava la merce era grossista e pellicciaio, che sono due cose diverse, uno può comprare la merce, ma occorre saperla lavorare per fare le pellicce, la sua famiglia lo faceva da generazioni, e ha cominciato ad andare a Londra a procurarsi la merce. Nel frattempo avevamo affittato una casa in viale Piave, dato che i proprietari, i fascisti, sono usciti dal campo e hanno richiesto la loro casa; io non sono stata lì a fare dei processi perché prima di tutto non mi piaceva la zona: era il villaggio dei ferrovieri, perché il vecchio era un ferroviere ai tempi, e hanno costruito in cooperativa queste villette, mentre a me piaceva il centro e allora abbiamo prima affittato un appartamento in viale Piave, un appartamento dove lui teneva la merce, dove si viveva, insomma non era il mio sogno però… Abbiamo anche ripreso a frequentare la Comunità Ebraica e a frequentare il tempio, subito dal quarantacinque, siamo sempre stati legati alla Comunità.


Quando è nata nostra figlia Barbara la vita ha preso una piega buona: si dice che ogni bambino porta la fortuna, mi rincresce di non averne avuto ancora altri, ma erano tempi difficili finita la guerra, perché i mezzi non c’erano e quello che si poteva fare era limitato. Anche l’Italia era in rovina, per non parlare della nostra, comunque sono contenta così perché mia figlia è stata più brava, ha fatto almeno due figli.

Barbara, mia figlia ha frequentato le scuole ebraiche fino alla maturità e anche lei ha mantenuto nella sua famiglia la base ebraica. Si è sposata nel settanta-settantuno con un bravo ragazzo a cui vogliamo bene come fosse nostro figlio, Steven Sassoon, di una buona famiglia anche lui con una base ebraica radicata. 


Poi sono nati i nipotini, Isabel nel 74 e Paul nel 76, Isabel è in Israele, adesso è venuta per pasqua, per trascorrerla in famiglia, studia è una brava ragazza, si è già laureata, Paul invece studia a Londra, anche lui è bravo, per noi rappresentano tutta la vita, speriamo che Dio li conservi e gli eviti ogni difficoltà nella vita, per non parlare di quello che abbiamo passato noi. 


Vorrei lanciare a loro non un monito, un avviso: di cercare sempre di tenersi insieme agli ebrei e di non fidarsi degli eventi che possono succedere, perché uno che non conosce quello che è successo …, noi non avevamo né preavvisi né niente, è venuta proprio come una … speriamo che loro abbiano una vita felice e senza queste difficoltà.






[1] Le notizie sulla famiglia Brattspies sono tratte dall’intervista ad Herta Brattspies che si può ascoltare sul sito del Ministero dei Beni Culturali, previa iscrizione motivata e autorizzazione all’accesso al seguente indirizzo http://www.shoah.acs.beniculturali.it/index.php?page=Browse.Collection&id=shoah%3Avhf_it. La trascrizione è proposta in coda alla storia. 


[2] In quel periodo in Polonia era in atto una violenta campagna antisemita e per i giovani ebrei era quasi impossibile iscriversi all’università.


[3] Cfr. Mino Scandella, Ricordate che questo è stato, ebrei internati liberi a Clusone 1941-1945, Quaderni di CLUBI n. 10, Clusone (BG), Comune di Clusone, 2016, pp. 51-52, 64; intervista a Herta Brattspiess. 


[4] Cfr. Mino Scandella, Ricordate che questo è stato, op. cit., p. 49; Herta Brattspies, nell’intervista trascritta in appendice, accenna alla tragica sorte dei parenti di Israel Szafran rimasti in Polonia, solo un fratello e il padre erano riusciti in precedenza a raggiungere la Palestina attraverso la Turchia, ma i loro sforzi per far uscire dalla Polonia gli altri famigliari: la moglie, gli altri quattro figli e la nonna, erano stati vani.


[5] Intervista a Herta Brattspies citata.


[6] Bielitz in tedesco, Bielsko in slesiano; è una cittadina della Slesia dal 1723 inclusa nel territorio della Galizia dell’impero Austroungarico.  Al termine della prima guerra mondiale passa sotto sovranità polacca, malgrado la maggior parte degli abitanti fosse etnicamente tedesca. Nel 1939 il distretto di Bielsko aveva 59500 abitanti.


[7] Non è stato possibile trovare riscontro nell’attuale toponomastica.


[8] Nella sinossi dell’intervista è indicato anche il cognome di Bruno: Fichman, la madre è Adolfina Bronner in Fichman.


[9] L’hazan è il cantore che guida la comunità nelle preghiere cantate.


[10] Alal o challah è un dolce della tradizione ebraica, una treccia di pasta dolce tipo pan brioche che viene consumata durante lo shabbat.


[11] Carpa ripiena.


[12] Il Kiddush è la celebrazione con cui si santificano lo Shabbat o altre feste religiose nella religione ebraica. 


[13] Trascrizione fonetica.


[14] Pasqua ebraica.


[15] In polacco il fiume Biala.


[16] Trascrizione fonetica.


[17] Parola in lingua straniera di difficile trascrizione fonetica, probabilmente bevanda a base di liquore.


[18] Il kummel è un liquore aromatizzato con semi di cumino.


[19] Trascrizione fonetica.


[20] Trascrizione fonetica.


[21] Pogrom è un termine di derivazione russa, significa letteralmente «distruzione, devastazione», con questo termine sono state chiamate nella Russia zarista, poi in generale, violente sollevazioni popolari contro le comunità ebraiche e i conseguenti massacri e saccheggi.


[22] Noto negozio di gastronomia milanese.


[23] Nella sinossi dell’intervista è indicato anche il cognome di Carlo e della sua famiglia: Morgensten.


[24] L’invasione della Polonia è iniziata il 1 settembre 1939.


[25] Trascrizione fonetica.


[26]Le zie ( Adolfina, madre di Bruno e Agostina Bronner) e il nipote sono a loro volta riuscite a raggiungere l’Italia, Herta lo racconta in un altro passo dell’intervista: “A lungo non ne abbiamo saputo più niente perché lui è emigrato con sua madre e un’altra zia attraverso l’Italia, lo abbiamo saputo perché si sono fermati a Roma e per una strana coincidenza a Ferramonti abbiamo conosciuto un signore che aveva una pensione a Roma e ci ha raccontato che per qualche settimana aveva avuto ospiti queste due donne con un bambino che si chiamava Bruno; dopo il racconto un po’ più minuzioso abbiamo capito che si trattava delle nostre zie che sono venute anche loro dalla Polonia e hanno cercato di emigrare in America, dopo una terribile avventura lì al consolato, perché gli americani allora erano parchi nel consentire i visti e loro erano disperate. Una di loro ha minacciato di buttarsi giù dalla finestra, allora hanno ricevuto questi visti e sono andate in America. Bruno è cresciuto e ha fatto il militare, è stato inviato nel Vietnam e da lì è tornato che non era più normale, come è successo a tanti altri ragazzi. L’ho rivisto dopo la guerra, perché è stato in Israele. Mia madre, sua zia, ha fatto di tutto per farlo fermare dopo che sua madre ed anche l’altra sua zia erano morte in America. Lui c’è stato qualche settimana e poi non dico è scappato, ma se ne è andato, lui non trovava da nessuna parte una tranquillità. È stato prima a casa loro (della sorella Lily ndr.) poi hanno provato in un kibbutz, forse per metterlo in compagnia di altri giovani, macché, è passato qui per Milano ed è venuto a trovarmi, e dopo non abbiamo saputo più niente, mi dispiace perché era l’unico cugino”.


[27] In numerose parti del discorso Herta interrompe la frase senza completarla, dando per scontata la conclusione. Abbiamo contrassegnato con il tre puntini queste sospensioni.


[28] Direttore del campo era il commissario di pubblica sicurezza dott. Paolo Salvatore, con alle dipendenze alcuni agenti comandati dal maresciallo Gaetano Marrari.


[29] Il termine è normalmente tradotto in italiano con “gentili”, dal latino gentilis, che appartiene alla gens, cioè alla stirpe, per indicare popolazioni diverse da quella di cui si fa parte.  


[30] Canto più noto come “Shalom alejem”, che significa “la pace sia su di voi”.


[31] Trascrizione fonetica.


[32] E’ un’immersione rituale nell’acqua, utilizzata allo scopo di purificazione e abluzione.


[33] Baldacchino nuziale sotto il quale ha luogo la cerimonia.


[34] I rotoli su cui è scritta la Torah, i libri della Bibbia corrispondenti secondo la dizione cristiana al Pentateuco.


[35] Dalla documentazione i Brattspiess risultano internati a Ferramonti il 16.09.1940 e confinati a Clusone l’11 ottobre 1941, Herta probabilmente somma anche i precedenti periodi di internamento.


[36] Vedi nota precedente.


[37] Don Giuseppe Bravi era parroco di Rovetta e capo del CNL locale; i Brattspiess vennero accolti da don Bravi la sera di Ognissanti (1 novembre), cfr. Quando il parroco di Rovetta con Fino salvò cinque ebrei, di Andrea Filisetti, Myvalley, notiziario on line della Val Seriana, 21 gennaio 2016, www.myvalley.it.


[38] Si tratta del comandante partigiano Bepi Lanfranchi, che Israel Szafran viene anche a trovare in un viaggio in Italia nel dopo guerra, cfr. Quando il parroco di Rovetta con Fino salvò cinque ebrei, di Andrea Filisetti, op. cit.


[39] La notizia inesatta: l’esecuzione dei militi della Tagliamento a Rovetta non fu ordinata, ma anzi ostacolata da don Bravi (vedi Angelo Bendotti e Elisabetta Ruffini, Gli ultimi fuochi, il filo di Arianna, Bergamo, 2008). Don Bravi, che era a capo del CLN di Rovetta, si recò al luogo dell’esecuzione per cercare di fermare il massacro e non essendoci riuscito, dovette limitarsi a portare i conforti religiosi ai giustiziandi.


[40] E’ così chiamata la migrazione ebraica verso la terra di Israele.


[41] Trascrizione fonetica.