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Fischhof Edith e la sua famiglia

Edith Fischhof e la sua famiglia


Casazza


Scheda di famiglia[1]


Fischhof Riccardo (Richard) (IG), nato a Vienna (A) il 7 marzo 1896, con la moglie Ehrenhaft Berta, (IG), nata a Littau (A) il 17 giugno 1896, e le figlie Fischhof Gertrude (Trude) (IG), nata a Vienna (A) il 3 maggio 1921, e Fischhof Giuditta (Edith) (IG), nata a Vienna (A) il 5 giugno 1923; giunsero in Italia a Fiume nel 1935[2]; Riccardo venne internato a Ferramonti nel 1940 mentre la moglie e le figlie erano state internate prima a Proceno (VT) il 14 agosto 1940, poi a San Lorenzo Nuovo (VT) alla fine del 1940; a Ferramonti dopo il 13 marzo 1941 poterono ricongiungersi a Riccardo. Giunsero a Bergamo il 23 ottobre 1941 e furono confinati a Casazza dove erano presenti al 12 novembre 1943. 


È attorno alla metà degli anni trenta che anche in Austria, come in molti altri paesi centroeuropei, inizia a montare un’ondata antisemita, fomentata dai governi e dai gruppi filonazisti a cui faceva comodo scaricare le colpe della pesantissima crisi economica sul capro espiatorio ideale: gli ebrei. 


L’antisemitismo, che faceva leva anche sulle tradizionali prevenzioni antiebraiche cattoliche, si diffuse ben presto anche tra gli studenti ed Edith (Giuditta) Fischhof, che si affacciava allora alla prima classe del ginnasio, risentì subito di questo clima, diventando presto oggetto di insulti antisemiti “Ero l’unica ebrea della classe e i ragazzi mi hanno offeso: ebrea sporca, ebrea puzzolente e ancora e ancora”, racconta Edith[3].


Richard Fischhof, che pure a Vienna aveva di un’ottima posizione economica e godeva di buona fama come sarto e disegnatore di moda, capì che il clima sociale, fortemente influenzato anche dalla destra filonazista, poteva solo peggiorare. Nel 1935 l’Italia non dava segni di antisemitismo e la Carnia, malgrado l’italianizzazione forzata a cui era stata sottoposta, conservava forti legami con il passato austroungarico, a Fiume inoltre viveva una fiorente comunità ebraica, forse furono questi i fattori che spinsero i Fischhof a scegliere Fiume come luogo di emigrazione.


Richard riuscì ben presto a trovare un’abitazione e subito dopo aprì una sartoria. Le figlie dovevano proseguire le scuole e Richard accompagnò Edith al ginnasio locale. L’accoglienza del preside fu ottima: dopo un colloquio in cui ne accertò la preparazione, giudicò Edith idonea ad essere inserita nel corso studi e rassicurò il padre che l’ostacolo della lingua sarebbe stato superato in pochi mesi. Il preside accompagnò poi Edith in una classe e la presentò ai suoi compagni: 


Lui dice qualche cosa, io sto lì davanti ai ragazzi, lui parla, dice qualcosa e io sto lì, penso: Dio mio, forse questo pavimento ha qualche buco dove io possa entrare dentro, dalla, non vergogna, stai lì, parlano di te non capisci una parola, però avevo paura dei ragazzi perché ero abituata alla mancanza di gentilezza da parte loro. Il direttore e la maestra sono usciti, i ragazzi si sono alzati e mi hanno circondato e il primo ragazzo, mi ricordo anche se sono passati quasi cent’anni, mi prende per mano, va verso il muro, mi mette la mano sul muro e dice “questo è un muro, ripeti muro”, e io dico muro, e dice “brava” e tutti battono le mani. 


Con l’aiuto dei compagni di classe Edith riuscì in pochi mesi a superare il problema della lingua. Anche l’attività del padre riscontrò un grande favore nella clientela, e il suo laboratorio giunse a contare dieci dipendenti.


Tutto procedette bene fino al 1938, quando furono emanate le leggi razziali: 


La mattina come tutti i giorni vengo a scuola e in cima alla scala sta il direttore che mi dice “Edith noi qui ragazzi di razza ebraica non vogliamo”. Tutto ad un tratto ero di razza ebraica, fino a quel momento non ci facevo neanche caso, “Vai a casa”. Sono tornata a casa, certamente offesa, piangendo.


Lo scoppio della guerra peggiorò ancor più la situazione: Richard, cittadino austriaco di razza ebraica, venne subito arrestato e internato a Ferramonti. Berta capì che presto sarebbe capitato anche a loro e che un ritorno era improbabile. Era lei l’amministratrice della ditta del marito e provvide subito alla sicurezza economica dei dieci dipendenti pagandoli e regalando loro la macchina da cucire che usavano in laboratorio e tutte le stoffe in giacenza. Berta e le figlie, furono arrestate agli inizi di agosto, i suoi dipendenti la attesero alla stazione e le consegnarono una busta di denaro, soldi che si rivelarono utili per superare le ristrettezze dell’internamento. Furono portate prima al campo di Proceno (VT) poi trasferite a San Lorenzo Nuovo (VT) poi, cambiato l’orientamento del ministero riguardo alla separazione di sesso degli internati, a Ferramonti dove i Fischhof poterono ricongiungersi.


L’impressione che Edith ricavò del campo di internamento si discosta molto da quella di altre testimonianze “era brutto, mancavano viveri, c’erano le malattie, famiglie con bambini, i bambini morivano uno dopo l’altro, c’era il tifo, c’era la malaria e tubercolosi”. 


Questo vale come l’impressione e ricordo che può aver avuto una ragazza di diciassette anni, ed è forse la somma delle cattive impressioni maturate nei tre campi di internamento[4], vale forse come rivelazione di come Edith sia stata profondamente scossa e del profondo disagio psicologico provocato dal trauma dell’arresto e dell’internamento. Diversa è invece la narrazione del rapporto con la popolazione, Edith ricorda che gli abitanti del paese spesso recavano cibo per gli internati o venivano a barattare i loro prodotti, come ricordano altri internati[5].


Nel campo però incontrò altri coetanei e si innamorò di Wolf, un internato tedesco di 20 anni, studente di filosofia, ma l’idillio non poté durare a lungo.


L’affollamento e i costi dei campi indussero ben presto il ministero a cercare forme alternative di controllo sui soggetti internati: il confino in vari comuni, possibilità riservata ai soli nuclei famigliari. Anche i Fischhof chiesero l’internamento libero e il 23 ottobre 1941 giunsero a Casazza e “stanchi morti e un po’ malandati” si presentarono alla stazione dei carabinieri. Ad accoglierli trovarono il brigadiere Giuseppe Ippoliti:


Entriamo in un bel vano ben riscaldato e si alza un maresciallo, si alza in piedi, e dice “Benvenuti!”, mamma guarda babbo, io guardo babbo, Trudi guarda me, da tre anni non ci hanno chiamato più signor Fischhof, signora Berta, signorina, niente, e il maresciallo si alza, ci porge la mano e si risiede.


Ippoliti si era occupato anche di trovare loro una buona abitazione, dotata di tutto il necessario e anche successivamente li aiutò. Fu l’inizio di un’amicizia tra le famiglie che si rivelò vitale per i Fischhof. A gennaio del 1943 Ippoliti raggiunse l’età della pensione e, collocato a riposo, si trasferì con sua moglie, Teresa Zani, nel paese dove aveva deciso di abitare: Chiesuola, una frazione di Pontevico (BS). Dopo l’8 settembre e l’arrivo dei tedeschi Ippoliti fece recapitare ai Fischhof un biglietto “Può darsi che i tedeschi vengano anche lì, se voi sarete in pericolo di vita io sarò sempre, sempre pronto ad aiutarvi.” Lasciò anche l’indirizzo di Pontevico dove potevano trovarlo.


Il pericolo non tardò a manifestarsi, i ricordi di Edith non permettono una datazione precisa e quindi non sappiamo se la fuga fu motivata da una presenza sempre più capillare dei tedeschi o dall’ordine di cattura degli ebrei della RSI, ma forse bastò l’arrivo dei tedeschi in paese per farli sentire in immediato pericolo: I Fischhof erano registrati presso il comune e la caserma come internati ebrei. Richard e Berta, che parlavano solo stentatamente l’italiano e quindi erano subito identificabili, fuggirono dapprima sulle montagne dietro il paese e, il giorno successivo, inviarono le ragazze a Pontevico dagli Ippoliti, soluzione che, vista l’ottima conoscenza della lingua maturata dalle figlie e quindi la loro possibilità di mimetizzarsi tra la popolazione italiana, poteva apparire più sicura. Richard e Berta riuscirono poi ad organizzare la loro fuga e a raggiungere la Svizzera.


Edith e Trude arrivarono a casa degli Ippoliti a Pontevico in tarda serata e bussarono al portone della casa dove abitavano gli Ippoliti, data la tarda ora una signora che era andata ad aprire, scambiandole probabilmente per malintenzionate, le respinse, ma mentre stavano per andarsene arrivò Giuseppe Ippoliti che le richiamò e ad alta voce, per farsi ben sentire dai vicini, disse “Ecco le mie cuginette, avete fatto bene a venire.” Giuseppe e Teresa le ospitarono per alcuni giorni ma, ritenevano troppo pericoloso per loro restare in una casa dove troppi vicini potevano maturare dubbi sulla loro identità di “cugine sfollate da Viterbo”. Dopo alcuni giorni di ricerche in paese Trude ed Edith trovarono ospitalità presso la casa delle Terziarie francescane della beata Angelina. Lì le ragazze poterono mettere a frutto anche gli insegnamenti di sartoria ricevuti in famiglia lavorando come sarte. Teresa Zani, il fratello Faustino e Giuseppe Ippoliti non cessarono di aiutarle fornendo loro quanto necessitava e aiutandole a costruirsi una clientela come sarte.


Ippoliti aveva procurato alle due ragazze anche documenti con false identità: Lidia (Edith) e Rita (Trude) Fiscotti.


La permanenza in clandestinità ebbe momenti critici come quando giunsero in paese alcuni soldati tedeschi, fra cui un ufficiale che a Vienna aveva conosciuto le ragazze Fischhof, ma anche in quell’occasione Ippoliti, generoso collaboratore e benefattore della chiesa locale, riuscì a convincere le suore a continuare ad ospitarle. Anche una caduta con la bici loro prestata, che aveva provocato a Trude una frattura alla gamba, fu superata dall’intervento del medico del paese, che, conoscendo la loro identità, curò Trude nella propria casa fino alla guarigione.


Quello che le ragazze non sapevano era che Giuseppe Ippoliti non era solo una caritatevole persona, era anche un partigiano della Divisione Tito Speri, appartenente alle Fiamme Verdi, formazione partigiana di ispirazione cattolica. Catturato dai nazisti verrà liberato dai compagni prima di finire fucilato.


Edith e Trude poterono rimanere nascoste fino alla liberazione, godendo anche della complicità di alcune persone e del silenzio di altre che erano a conoscenza o sospettavano la loro vera identità.


La guerra è finita, io non ce la facevo più, io accusavo tutto e tutti, non volevo più saperne dell’Europa, non volevo più saperne dell’Italia, non volevo più saperne di Pontevico, mi avete rubato quattro anni della mia giovinezza, della mia infanzia, gli anni più belli che ogni persona passa, ero arrabbiata e anche mia sorella era arrabbiata. Io ho detto “Io non vado da nessuno, a me non frega niente, io voglio andar via dall’Europa, vado in Israele, voglio la mia patria, voglio di nuovo avere i miei diritti voglio cantare l’inno del mio paese, voglio essere libera, voglio studiare”. E così noi siamo venute via da Pontevico quasi quasi come ladri di notte, e io ho avuto questa facoltà di dimenticare, questi quattro anni non erano, perché non era umano quello che io ho passato.


È importante e coraggiosa questa descrizione di Edith del proprio stato d’animo, aiuta a capire la reazione di alcune persone che si dimostrarono irriconoscenti nei confronti di chi le aveva aiutate: troppo grande era stata la tensione del continuo pericolo e la consapevolezza dell’ingiustizia, al punto da trovare addirittura difficile separare le responsabilità di una nazione che li aveva perseguitati dai meriti di coloro che i perseguitati avevano aiutato: alcuni non riuscirono a farlo e preferirono semplicemente andarsene, dimenticare e rifarsi, un’altra volta, una nuova vita.


Edith e la sorella si ricongiunsero ai genitori a Milano ed è qui che Edith conobbe e si innamorò di un soldato della Brigata Ebraica, Paul Gelbein (Gilboa), che sposò. Il 15 febbraio 1946 salpò da Venezia verso la Palestina sulla nave da guerra statunitense Colorado Springs per raggiungere il marito. Nel 1950 nacque il primo figlio e nel 1955 una figlia.


Io non ho mai, mai detto una parola su quello che mi è successo. Una notte faccio un sogno e vedo Peppino Ippoliti davanti a me e mi dice “Lidia come stai?”, da allora erano passati vent’anni, ed io mi sveglio e dico Dio santo cosa ho fatto io, come mai non ho mai cercato di dire una parola di grazie, questo uomo, la sua famiglia e tutta Pontevico mi hanno salvato la vita, e ho cominciato a scrivere e a testimoniare tutto ciò che è successo a Yad Vashem.


Forse gli anni non erano venti, ma molti di più: Edith ne aveva 96 quando, dopo sette anni di istruttoria da parte dello Yad Vashem, durante i quali Edith non ha mai cessato di collaborare e fornire testimonianza e informazioni, il 18 giugno 2019 Giuseppe Ippoliti e sua moglie Teresa Zani sono stati dichiarati Giusti fra le nazioni. 

Edith però non si limiterà a questo, racconterà la sua storia in due libri[6] e diventerà testimone diretta effettuando numerosi interventi anche in Italia. Ancora nell’ottobre 2021 ha partecipato ad una cerimonia in onore di Giuseppe Ippoliti a Pontevico e un anno dopo alla rievocazione della sua vicenda presso l’Istituto Comprensivo Pralboino nella sede della scuola secondaria di Pavone del Mella(BS).






[1] Nota dell’autore: sono venuto a conoscenza della storia della famiglia Fischhof quando “Ebrei a Bergamo 1938-1945” era già in stampa, fino a quel momento l’unico dato che conoscevo era la professione del padre. Un articolo di giornale giratomi da un amico mi ha permesso di rintracciare una serie di notizie che non erano ancora presenti quando ho effettuato l’ultimo controllo sistematico sul web. La differente grafia di cognome e nome, in questo caso Fischhof e Fischof, è frequente nei documenti e l’italianizzazione dei nomi era norma nella prassi burocratica quando esisteva una corrispondenza conosciuta. Nel racconto si è lasciato la grafia del cognome come risulta nell’I.G. utilizzando però i nomi non italianizzati.


[2] Cfr. Federico Falk, a cura di, Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali – Gli ebrei residenti nella provincia del Carnaro negli anni 1915 – 1945 – Ebrei a Fiume e Abbaziahttps://www.bh.org.il/jewish-spotlight/fiume/?page_id=469. Purtroppo, il database on line da poco non è più raggiungibile. Federico Falk, ebreo nato a Fiume nel 1919, è stato tra i più attivi custodi di quel mondo e dei suoi protagonisti: le sue ricerche sulle comunità ebraiche del Quarnaro hanno trovato collocazione in quello che è oggi un vero e proprio atlante del Quarnaro e delle sue ferite: Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, Litos, Roma, 2012. È morto a 97 anni nel febbraio 2016.


[3] Questa e le successive citazioni dal racconto di Edith, sono trascritte dalla conversazione tenuta con gli studenti dell’Istituto Comprensivo Pralboino (BS) il 25 ottobre 2022, registrato e visibile dal sito dell’istituto, https://www.icpralboino.edu.it/

pagine/incontro-con-edith-fischhof-gilboa- . Il racconto è stato inoltre supportato e integrato con notizie presenti su vari siti, che non sono indicate singolarmente in quanto rielaborate e confrontate per confluire in un racconto complessivo: Wikipedia sotto le voci Edith Fischof Gilboa e Giuseppe Ippoliti; redazionale,  Edith Fischhof Gilboa, sopravvissuta alla Shoah, incontrò l’amore a Ferramonti, Quicosenza.it, 28gennaio 2016; Antonio Iannicelli, L’amore nel campo di concentramento, Corriere della Calabria, 26 gennaio 2016, https://www.corrieredellacalabria.it; Giornale di Brescia redazione web, La storia del brigadiere che salvò due sorelle ebree a Pontevico, 8 ottobre 2021, giornaledibrescia.it; Cerimonia per ricordare il carabiniere che salvò due bimbe ebree, ER Editoria Responsabile.com, 2022; Carabinieri: i “Giusti”, la deportazione dei Carabinieri e le attività di commemorazione, redazionale, Report difesa 27 gennaio 2023, https://www.reportdifesa.it/carabinieri-i-giusti-la-deportazione-dei-carabinieri-e-le-attivita-di-commemorazione/ .


[4] Le impressioni del campo di Ferramonti di Edith assumono tinte quasi fosche, certo Ferramonti era un luogo insalubre e isolato, era stato ricavato in una zona paludosa malamente bonificata, la malaria era un pericolo costante, anche se veniva distribuito il chinino, e sicuramente c’erano anche casi di altre malattie, ma sui circa 3.000 internati i decessi furono 38 e gli unici deceduti di morte violenta furono le 4 vittime di un mitragliamento aereo durante uno scontro fra due caccia. È possibile confrontare le sue impressioni con quelle di Oscar Gerber e di Herta Brattspies, trascritte nelle rispettive storie. Le testimonianze di numerosi internati descrivono poi il direttore del campo Paolo Salvatore, come persona di grande umanità, che con grande coraggio aveva lasciato agli internati la massima libertà di movimento e autogestione all’interno del campo e si era prodigato per migliorarne le condizioni di vita, al punto da meritare una menzione in Gariwo, la foresta dei Giusti.


[5] Le impressioni del campo di Ferramonti di Edith assumono tinte quasi fosche, certo Ferramonti era un luogo insalubre e isolato, era stato ricavato in una zona paludosa malamente bonificata, la malaria era un pericolo costante, anche se veniva distribuito il chinino, e sicuramente c’erano anche casi di altre malattie, ma sui circa 3.000 internati i decessi furono 38 e gli unici deceduti di morte violenta furono le 4 vittime di un mitragliamento aereo durante uno scontro fra due caccia. Sicuramente le condizioni di vita erano diventate più difficili a causa dell’affollamento, prima che il ministero decidesse di ricorrere anche per gli internati all’istituto del confino. È possibile confrontare le sue impressioni con quelle di Oscar Gerber e di Herta Brattspies, trascritte nelle rispettive storie. Le testimonianze di numerosi internati descrivono poi il direttore del campo Paolo Salvatore, come persona di grande umanità, che con grande coraggio aveva lasciato agli internati la massima libertà di movimento e autogestione all’interno del campo e si era prodigato per migliorarne le condizioni di vita, al punto da meritare una menzione in Gariwo, la foresta dei Giusti.


[6] Edith Fischhof-Gilboa, Vivrò libera nella terra promessa, Ugo Mursia Editore, 2018; I colori dell’arcobaleno sul mare, non reperibile, forse un’edizione personale, conservato nell’archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea.