scheda completa

Gallico Lidia

Lidia Gallico e la sua famiglia


Albino


Scheda di famiglia


Enzo Gallico, nato il 20 settembre 1904, la moglie Tina Rimini, nata il 21 agosto 1905 e la figlia Lidia, nata a Mantova il 13 luglio 1932.

(Capitolo di riferimento: Fuggiaschi e clandestini)


Enzo Gallico era medico, al suo appartamento era annesso un ben attrezzato ambulatorio, per questo fu scelto dai tedeschi occupanti quale residenza per un loro ufficiale medico. “Io non ero presente al colloquio, ma quando mia madre ce lo raccontò era terrorizzata: dovevamo andarcene immediatamente, il più presto possibile”, racconta Lidia[1]


Enzo, percosso alcuni giorni prima da sconosciuti che avevano bussato di notte alla porta, si era già rifugiato a Castelluccio (MN), presso alcuni ex affittuari della madre con cui avevano ottimi rapporti di amicizia. Lidia e la madre si rifugiarono a loro volta a Castelluccio, ma ben presto le continue presenze di tedeschi e fascisti, alla ricerca di partigiani e soldati sfuggiti alla cattura, resero il rifugio insicuro, Enzo e Tina decisero quindi di raggiungere Albino, dove già si trovava suo cugino Alberto Goldstaub, sfollato da Milano con la famiglia. Ad Albino i Gallico arrivarono a fine ottobre e trovarono alloggio probabilmente presso la Trattoria Vecchi[2], ben accolti dai proprietari, a conoscenza della loro situazione. Con l’ordine di arresto per tutti gli ebrei emanato il 30 novembre 1943 la situazione ben presto precipitò[3]:  


L’albergatore stesso fu avvertito che presto ci sarebbe stata una retata da parte dei fascisti, Che fare? Ancora cambiare alloggio, ancora trovare un posto dove andare; l’albergatore ci mise in contatto con un commerciarne di bestiame e macellatore clandestino che, poco tempo dopo, ci comunicò che suo cognato era disposto ad ospitarci in casa sua, una baita posta sulle colline sopra Albino. […] Non essendo abituati ai percorsi di montagna arrivammo su affaticati e stanchi, ma l’accoglienza affettuosa che ricevemmo dalla famiglia Nicoli ci riscaldò il cuore. II “Barbù” – così i paesani chiamavano il montanaro che ci avrebbe ospitato – ci aspettava in cima al sentiero con la moglie e i figli, Essi, che non ci avevano mai visto prima, ci aprirono le porte della loro casa con grande umanità e generosità, come se fossimo stati amici carissimi, noi perseguitati, noi in fuga, noi cacciati dalla “nostra” casa, dalla “nostra” città, da quelli che noi consideravamo i “nostri” veri amici di sempre. 


La casa che li accolse era un cascinale a tre piani situato su un crinale presso la frazione di Dossello di Albino, un paese della Valle del Lujo, tributaria di sinistra della Val Seriana. I padroni di casa erano Edoardo Nicoli, detto “Barbù”[4] e sua moglie Elisabetta Belotti, con loro i figli Ornella, Marina, Melchiorre, Osanna, Edgardo. “Nostro padre era un antifascista totale, era per la libertà e non si fermava di fronte a niente. Neppure davanti al pericolo di rimetterci la vita“, racconta molti anni più tardi la figlia Osanna[5].


Il Barbù non accolse nel suo cascinale solo i Gallico, si rifugiarono da loro anche i Goldstaub: Alberto, sua moglie Luciana Levi, i figli Franco, Giulio e Emma, e Vittorio Goldstaub, padre di Alberto.


I cittadini Gallico e Goldstaub non erano certo abituati alle scomodità di un cascinale di mezza montagna senza acqua corrente, luce elettrica e servizi igienici, inoltre ogni giorno si doveva provvedere al vitto per sedici persone.


Malgrado le difficoltà oggettive la vita trascorse tranquilla per un paio di mesi, in particolare per Lidia e i cuginetti, entusiasti di questa vita di giochi e camminate all’aria aperta in compagnia dei giovani figli di Edoardo, in particolare della figlia Osanna, tredicenne, finché a gennaio si verificò un episodio che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, racconta Lidia[6]:


Un giorno accadde un fatto molto grave: mentre eravamo tutti in casa il Barbù arrivò di corsa dal paese e ci avvertì che un piccolo gruppo di soldati tedeschi stava percorrendo il sentiero che portava alle montagne e presto sarebbe passato davanti alla baita, Dovevamo nasconderci in qualche luogo, ma non ne avemmo il tempo perché già si sentivano i loro passi cadenzati e le loro voci gutturali. Non sapendo cos’altro fare, noi bambini ci curvammo sotto le finestre per non farci vedere, e attendemmo la nostra sorte col cuore in gola. Sentimmo il suono dei loro pesanti scarponi sul piccolo marciapiede di pietra che girava attorno alla casa, poi il suono si attenuò, infine tacque del tutto: si erano fermati davanti alla baita. Noi terrorizzati, eravamo in ginocchio sotto le piccole finestre del primo piano, ma poiché il sentiero era in salita, le loro teste si trovavano proprio alla nostra altezza. 


Dopo una rapida occhiata all’esterno della balta i quattro o cinque soldati si consultarono brevemente fra loro, infine ripresero il cammino verso la montagna. Eravamo salvi!


L’episodio mise tutti in all’erta: il posto non era più sicuro dato che fascisti e tedeschi sempre più spesso si facevano vedere in valle del Lujo alla ricerca di renitenti, macellatori clandestini e partigiani.


Vittorio Goldstaub era già tornato a Genova per assistere la moglie in fin di vita, Enzo e Tina, Aldo e Luciana decisero che non era più sicuro rimanere ad Albino, le scelte delle due famiglie furono però diverse: Aldo Goldstaub, la moglie e i figli rientrarono a Genova, dove riuscirono a rimanere nascosti fino alla liberazione. Enzo Gallico, sua moglie e Lidia cercarono invece una soluzione che li mettesse definitivamente in salvo: la fuga in Svizzera. Ad aiutarli fu don Angelo Zois[7], parroco di Dossello, che era in contatto con don Guerino Gamba[8], già curato ad Albino e all’epoca coadiutore a Berbenno. Don Guerino era in contatto con il segretario del fascio del paese, persona equivoca che certo non aiutava per buon cuore, ma che aveva già organizzato l’espatrio di altri ebrei confinati o sfollati a Sant’Omobono. Racconta Lidia[9]:


II federale, che aveva preso accordi con alcune guide, ci disse quello che dovevamo fare e quanto dovevamo pagare: se non ricordo male, venticinquemila lire a persona. Una cifra enorme per quei tempi. Comunque mio padre aveva portato con se gli ultimi oggetti d’oro rimasti in casa, proprio per una eventuale emergenza: li vendette, non so come, e poté cosi pagare le guide che ci avrebbero accompagnato in Svizzera. Mio padre aveva pagato per la nostra vita, aveva “comprato” le nostre vite, ma tutte quelle persone che non potevano prendere la via della Svizzera, che non avevano denaro sufficiente, che cosa avrebbero fatto, dove sarebbero andate, dove avrebbero trovato salvezza?


Il viaggio verso la Svizzera si svolse per fortuna senza inconvenienti: prima il treno della Val Seriana, poi un altro treno, Lidia non ricorda le tappe del viaggio, comunque arrivarono verso Chiasso, una sosta di due giorni in una casa dove incontrarono altre persone in attesa di sconfinare[10]:


La notte del 25 gennaio 1944, ci incamminammo verso il confine, C’era molta neve nei campi e nei prati che dovevamo attraversare: la notte era buia, senza luna e senza stelle – una notte ideale per una fuga – e noi tenevamo a fatica il passo dei nostri accompagnatori. Dopo circa un’ora di cammino in assoluto silenzio, arrivammo alla frontiera. Lì c’era una rete, e c’erano anche i tedeschi, ma erano stati presi accordi tra le nostre guide e le guardie: in un punto convenuto qualcuno sollevò la rete, ci spinse sotto e noi passammo. Ricordo di aver visto i campanelli attaccati alla rete, ma non ricordo se suonarono o no. Poi ci dissero: “Siete in Svizzera, andate, allontanatevi il più presto possibile”, E ci lasciarono soli nella notte in una campagna sconosciuta, al buio pesto, Camminammo in mezzo ai campi, nella neve alta, senza sapere dove andare, finché scorgemmo in lontananza una luce fioca, che proveniva da una casetta isolata. Suonammo il campanello, chiamammo, finché si affaccio alla finestra una donna insonnolita che ci indicò la direzione verso il più vicino posto di polizia.


Fortunatamente Enzo riuscì a convincere i poliziotti di frontiera svizzeri della loro condizione di pericolo ed evitare, come purtroppo era successo ad altri ebrei, un respingimento che poteva risultare fatale. 


Né Lidia Gallico né Franco ed Emma Goldstaub hanno dimenticato i loro benefattori: Edoardo Nicoli e la sua moglie Elisabetta Belotti sono stati riconosciuti Giusti fra le nazioni.






[1] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, p. 94.


[2] Sezione ANPI Albino, In Valle del Lujo protagonisti sconosciuti e dimenticati della storia, Paese mio, l’informazione casa per casa, 10 aprile 2016, http://www.paesemio.eu/in-valle-del-lujo-protagonisti-sconosciuti-e-dimenticati-della-storia/.


[3] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, op. cit. p. 97.


[4] Edoardo Nicoli, detto “Barbù”, nato a Vall’Alta (BG) ora frazione di Albino, il 27 novembre 1893, è morto il 27 gennaio 1956.


[5] Giuseppe Zois, Difendo la libertà a costo della vita, Il Caffè, Rezzonico editore, 28 gennaio 2018 http://www.caffe.ch/stories/storie/59667_difendo_la_libert_a_costo_della_vita/. Osanna, nata nel 1930, è morta a Castel San Pietro nel Canton Ticino (CH), dove era emigrata col marito nel 1953.


[6] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, op. cit. pp. 101-102.


[7] Cfr. Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete – Il clero di Bergamo durante l’occupazione tedesca (settembre 1943 – aprile 1945), Centro Studi Valle Imagna, Bergamo, gennaio 2018, pp. 394-395.


[8] Cfr. Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete, op. cit. pp.  349-350.


[9] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, op. cit. p. 103.


[10] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, op. cit. p. 104.