Lidia Gelmi Cattaneo
Ponte San Pietro
Scheda di famiglia
Lidia Gelmi, nata a Presezzo (BG) nel 1903.
Ermanno Weiss (Weisz), nato a Radwanka (PL) l’8 ottobre 1890, la moglie Francesca Berger (Fanny), nata a Beregszás (H) l’8 gennaio 1895, i figli: Irene, nata a Fiume il 16 ottobre 1917, Rosina, nata a Beregovo (all’epoca CK, ora UA) il 13 agosto 1921, Giuditta, nata a Fiume il 29 luglio 1923, Jolanda, nata a Fiume, Alessandro, nato ad Abbazia il 19 agosto 1926, Erna, nata ad Abbazia il 28 marzo 1929 ed Ethel, nata ad Abbazia il 10 dicembre 1933.
Giacomo Galandauer, nato a Bonyhád (H) il 26 marzo 1905, la moglie Elena Weiss, nata a Sušak (YU) il 10 giugno 1910, i figli, tutti nati a Fiume: Eugenio il 7 luglio 1933, Cecilia il 23 marzo 1937 e Antonia il 4 febbraio 1938.
Laura Berger ved. Weiss nata a Fekete Erdö (H) il 25 febbraio 1884, Carlotta Weiss ved. Jakobovits, nata a Fiume l’1 aprile 1907, i figli Oscarre Jakobovits, nato a Fiume il 10 settembre 1930 ed Edda, nata a Fiume il 3 dicembre 1932.
(Capitoli di riferimento: La fuga in Svizzera: le organizzazioni della fuga / Fuggiaschi e clandestini)
A Ponte San Pietro la presenza del ponte ferroviario e stradale sul Brembo, di un aeroporto e soprattutto di uno stabilimento della Caproni, che produceva aerei militari, aveva sconsigliato l’internamento di ebrei stranieri, possibili spie. Probabilmente non vi erano nemmeno sfollati italiani: quegli obiettivi militari esponevano il paese al rischio di bombardamenti, che puntualmente si verificarono il 24 luglio, il 20 ottobre e il 4 novembre 1944, il 3 gennaio, il 15 gennaio e il 22 aprile 1945[1]: 35 le vittime, più di 50 le case completamente distrutte e 70 danneggiate.
A Ponte San Pietro in quel periodo abitava in una villa in via Vittorio Emanuele II Lydia Gelmi Cattaneo con la sua famiglia. Lydia era una donna non comune per i suoi tempi, così la descrive il figlio Angiolello[2]:
Lydia era nata a Presezzo nella famiglia Gelmi, quando sposò Camillo Cattaneo giovane veterinario, andò a vivere a Ponte San Pietro. Classe 1903, era davvero una donna particolare. Nel 1932 era fra le poche bergamasche ad avere la patente di guida; la passione per la cultura e l’archeologia l’aveva portata in angoli remoti del mondo ancora prima della seconda guerra mondiale. Ricordava Lydia Cattaneo di quella volta che in treno scese nel profondo Sudan: “Ero l’unica donna sul treno”. Erano altri tempi. Lydia faceva la miniaturista. Era apprezzata in tutto il mondo: consegnò personalmente il ritratto in miniatura allo scià di Persia.
Racconta Angiolello che durante uno dei suoi numerosi viaggi alla fine degli anni venti aveva conosciuto la famiglia di Ermanno Weiss, negoziante di mobili che e si era stabilito ad Abbazia nel 1912, diventando quindi cittadino italiano dopo la guerra; nel 1914 Ermanno aveva sposato Francesca Berger (Fanny). La coppia aveva avuto sette figli: Irene, Rosina, Giuditta, Jolanda, Alessandro, Erna, ed Ethel[3].
Silvio Gelmi, fratello di Lydia, si trovava di stanza ad Abbazzia durante la guerra, lì era entrato in contatto con i Weiss. Silvio l’8 settembre 1943 decise di unirsi ai partigiani jugoslavi e combattere i tedeschi, prima però consigliò la famiglia Weiss di lasciare la città e consegnò loro una lettera per la sorella Lydia. I Weiss, passarono la frontiera verso l’Italia e si fermarono a Trieste, dove non erano conosciuti e potevano mimetizzarsi fra la popolazione locale. Irene partì verso Bergamo dove Lydia Cattaneo l’accolse con calore e invitò tutta la famiglia a venire a casa sua. Lydia aveva due figli in età di leva che erano già fuggiti in Svizzera[4], aveva quindi già avuto contatti con chi poteva fare da guida nell’attraversamento del confine. I Weiss non avevano documenti falsi, viaggiare da Trieste a Bergamo senza incappare in qualche controllo sarebbe stato impossibile e con i propri documenti sarebbe stata la fine. Fu Lydia a procurarne di falsi e a recarsi a Trieste per portarli ai Weiss[5]. Racconta il figlio Angiolello: “Mia madre conosceva alcuni sindaci dei paesi attorno e della Valle Imagna. Ai sindaci spiegava certe situazioni, chiedeva aiuto. Otteneva carte d’identità false[6].”
Purtroppo Angiolello nulla dice di questi contatti, e quindi non sappiamo se Lydia si muovesse nell’ambito di una rete organizzata e quale, ma date le sue vaste conoscenze è probabile che la sua non fosse solo una iniziativa individuale, certo è che si espose e rischiò di persona.
Lydia organizzò il passaggio in Svizzera dei Weiss, prese accordi con i passatori e poi trasferì i Weiss in una casetta di montagna dove attesero l’avviso per intraprendere la traversata. Pochi giorni prima della partenza, Irene ebbe un incidente e si ruppe una gamba, così mentre la sua famiglia riuscì a raggiungere senza inconvenienti la Svizzera, Irene dovette tornare a Ponte San Pietro dove rimase in casa Cattaneo dal gennaio 1944 al maggio 1945, quando poté ricongiungersi ai famigliari.
Racconta ancora Angiolello che Lydia non conosceva la paura:
Sembrava che per lei il pericolo non esistesse. Era totalmente fiduciosa in quello che faceva, al limite dell’incoscienza. Aveva una volontà di ferro. E, in effetti, in casa la paura vera la provammo soltanto una volta. Fu quando improvvisamente bussò alla nostra porta un ufficiale tedesco. Avevamo in casa una ragazza ebrea, si chiamava Irene, e presi alla sprovvista non sapevamo dove nasconderla. Allora mia madre aprì una cassapanca che avevamo nel soggiorno e le disse di infilarsi dentro. Aprimmo la porta. L’ufficiale tedesco entrò con una borsetta in mano: era la borsetta che la nostra donna di servizio aveva rubato alla ragazza ebrea! Conteneva documenti falsi. Sudammo tutti freddo. L’ufficiale non sapeva a chi appartenesse la borsetta, ma era venuto da noi perché sapeva che la ladra prestava servizio qui… Ricordo che mia madre restò calma e parlando con l’ufficiale andò a sedersi precisamente sopra la cassapanca. Che momento quello. Per fortuna la nostra donna di servizio fece la ladra, ma non fece la spia e il tedesco se ne andò. Irene oggi è ancora viva.
I Weiss dopo la guerra rientrarono in Italia, di alcuni conosciamo cosa fecero dopo: Irene si sposò con un Herskovich ed emigrò a New York; Giuditta si sposò a Milano con il sig. Netzer dal quale ebbe un figlio, Beniamino, emigrato in Israele; rimasta vedova raggiunse il figlio in Israele; Jolanda si sposò con il sig. Neumann ed emigrò a New York; Erna si sposò con il sig. Grossmann ed emigrò a Far Rockaway (U.S.A.); Ethel si sposò con il sig. Kahan e emigrò a Tel Aviv in Israele[7].
I Weiss non dimenticarono mai chi li aveva salvati, iI 28 aprile del 1974 Yad Vashem ha riconosciuto, prima fra i bergamaschi, Lidia Cattaneo (nata Gelmi) come Giusta tra le Nazioni.
I Weiss non furono gli unici che Lydia aiutò a passare il confine, il figlio parla di una cinquantina di persone, alcune siamo riusciti a identificarle. Prosegue Angiolello[8]:
A Bagnocavallo, in Romagna, c’era qualcosa, forse una famiglia, comunque un punto di riferimento per gli ebrei d’Europa che volevano salvarsi. Mia madre si mise in contatto con Bagnocavallo attraverso i suoi amici e cominciò ad aiutare anche persone che non conosceva”. In quei giorni, Lydia Cattaneo era una donna di quarant’anni dal sorriso ampio, aperto. Non si accontentava di aiutare qualcuno: ogni volta che c’era bisogno, partiva. Procurava documenti falsi, ospitava ebrei nella villa di Ponte San Pietro. Li accompagnava verso la Svizzera perché era la Svizzera la vera salvezza. […] Lydia Cattaneo aveva una piccola rete di amici. “Mia madre conosceva alcuni sindaci dei paesi attorno e della Valle Imagna. Ai sindaci spiegava certe situazioni, chiedeva aiuto. Otteneva carte d’identità false. Con i documenti nella borsetta saliva in treno, raggiungeva Bagnocavallo, incontrava gli ebrei e li portava a Ponte San Pietro. Di norma stavano a casa nostra per pochi giorni”. I giorni necessari a stabilire i contatti con i contrabbandieri, con gli “spalloni” che partivano da Tirano e lungo sentieri impervi raggiungevano passi in quota che poi scendevano in Svizzera.
Bagnacavallo (RA) era stata luogo di rifugio o confino per molti ebrei profughi e attorno a loro si era organizzata una rete di solidarietà, animata da Aurelio Tambini[9] e dai suoi famigliari: la moglie Aurelia e i figli Vincenzo e Rosita; di questa rete faceva parte anche il maresciallo Ezechiele Macaccaro[10], comandante della stazione dei carabinieri, lì si erano stabilite anche le famiglie ebree Galandauer e Jakobovitz. Le due famiglie provenivano da Fiume. Giacomo Galandauer era cittadino ungherese e commerciante in mercerie al minuto, era sposato con Elena Weiss, e a Fiume erano nati i loro i tre figli: Eugenio, Cecilia e Antonia. La famiglia Galandauer era giunta a Bagnacavallo assieme ad alcuni parenti: Laura Berger ved. Weiss, sua figlia Carlotta Weiss ved. Jakobovits e i suoi figli Oscarre Jakobovits ed Edda Jakobovits. Il 22 settembre 1943 avevano lasciato Fiume su di un carro trainato da due cavalli per sfuggire alle retate tedesche. Portatisi a Trieste il giorno successivo proseguirono in treno fino a Bagnacavallo, dove vennero accolti dalla famiglia Tambini e dalla famiglia di Antonio Dalla Valle[11]. Racconta Eugenio Galandauer[12]:
La Ghestapo aveva mandato un comunicato urgente alla polizia locale, dichiarando di sapere che la zona dava asilo agli ebrei. Accluso al comunicato c’era una lista completa di nomi dei rifugiati e di quelli che davano rifugio. Molto probabilmente quella lista era stata consegnata da un delatore locale.
Il maresciallo Maccacaro si premurò di avvisarli e aiutarli e non solo quella volta, avvisò tutte le famiglie ebree presenti nella sua zona ogni volta che venne a conoscenza di rastrellamenti. Le bambine Cecilia, Antonia ed Edda vennero ospitate nel Convento del Sacro Cuore a Lugo di Romagna, mentre i ragazzi Eugenio Galandauer, Oscar Jakobovits e il cugino Carlo Berger furono sistemati nel Convento dei Padri Salesiani.
Probabilmente Ermanno Weiss aveva parlato con Lydia Gelmi Cattaneo di questi parenti, e Lydia si era messa in contatto con i Tambini. Lydia dopo averli scortati prima a Ponte San Pietro e poi a Tirano li aveva affidati a passatori di fiducia che, a piedi, durante una notte buia e piovosa, li avevano aiutati a superare il confine svizzero e a raggiungere la salvezza. Dopo la guerra, il 10 settembre 1945 i Galandauer ritornarono a Fiume, ma la vita sotto il regime di Tito era difficile e non appena fu concesso ai cittadini italiani di partire, il 15 maggio 1947 la famiglia si trasferì a Cremona e nell’aprile 1949 si imbarcò a Venezia sulla motonave “Abbazia” per raggiungere Israele[13]. Nel 1946 anche gli Jakobovits ritornarono a Fiume, ma nel 1947 lasciarono definitivamente la città per trasferirsi temporaneamente a Cremona. Nel 1949 emigrarono in Israele.
I Weiss non scordarono chi aveva salvato loro la vita: II 28 aprile del 1974 Yad Vashem ha riconosciuto Lidia Cattaneo (nata Gelmi) come Giusta tra le Nazioni.
A Bagnacavallo non c’erano solo queste due famiglie, racconta ancora Angiolello Cattaneo[14]:
Soltanto una volta andò male. Era stata “adottata” da Lydia Cattaneo una famiglia di ebrei cugini dei Weiss. “Vollero fare di testa loro. Mia madre li voleva accompagnare a Tirano e poi farli passare nel solito modo. Ma loro avevano figli piccoli, non se la sentivano di fare ore e ore di sentiero. Si affidarono a persone che avevano conosciuto loro. Mia madre non li conosceva.
Queste persone anziché in Svizzera li portarono dritti nella caserma delle SS. Vennero deportati. Non tornò nessuno. Sì, c’era anche gente del genere, c’erano anche italiani che facevano queste cose.
Si trattava probabilmente della famiglia Berger: Alberto, nato a Sussak (all’epoca Ungheria, poi Jugoslavia, ora Croazia) il 20 agosto 1899, era Direttore amministrativo del Mobilificio Berger a Fiume. Aveva sposato Regina Rappaport, nata a Kigyös (H) il 25 dicembre 1899, si erano stabiliti a Fiume nel 1910 e lì erano nati i loro tre figli: Erna, nata il 6 gennaio 1921, Giuseppe, nato il 2 maggio 1924 e Carlo, nato l’8 gennaio 1930. Alberto ottenne la cittadinanza italiana per sé ed i propri famigliari il 19 febbraio 1931. Il 20 luglio 1940 Alberto Berger venne internato a Tortoreto (TE) da dove nel 1941 venne trasferito a Castelfranco Emilia (MO). Il 31 maggio 1943 fu liberato per revoca del provvedimento di internamento e rientrò a Fiume[15]. Anche lui doveva aver trovato rifugio nei dintorni di Lugo visto che il figlio Carlo era stato ospitato nel locale convento dei Salesiani assieme a Eugenio Galandauer e Oscar Jakobovits.
A Lugo erano presenti anche i famigliari di Sigismondo Kugler: la moglie Carlotta Kurz e le figlie Gisella, Elena Anna e Maddalena, Sigismondo era invece stato internato prima a Ferramonti di Tarsia e poi a San Giorgio Lucano ed era stato liberato dall’arrivo degli alleati.
Racconta Elena Anna[16]:
Non ho idea di come giungessero e di come si propagassero le notizie, e da chi mamma abbia avuto nomi e indirizzi, ma dopo alcuni giorni eravamo di nuovo in viaggio e questa volta per Lugo in Emilia-Romagna. Secondo le informazioni che mamma aveva, Ghisi doveva incontrare un certo signor Tambini che si sarebbe occupato di noi; assieme a lui si recò all’ufficio anagrafe e Ghisi dichiarò “che noi, la famiglia Vieri, eravamo profughi scappati da Zara che era stata distrutta dai bombardamenti, ed eravamo senza documenti”. II signor Tambini, di famiglia conosciuta ed onorata, firmò come garante che la dichiarazione rispondeva al vero e Ghisi ritornò a casa con le nuove carte d’identità e con le tessere annonarie.
Oggi sappiamo che Vincenzo Tambini, sua sorella ed altri loro amici, erano impegnati, a rischio della propria vita, nel salvataggio degli ebrei e di altri fuggiaschi. Loro aiutarono almeno dieci famiglie di Fiume che erano disperse in paesetti diversi non lontano da Lugo. Ogni famiglia aveva il suo nuovo nome che suonava più italiano: non più Kugler ma Vieri, sparito il Berger trasformato in Bergi.
A Viserba invece avevano trovato rifugio nella fuga da Trieste gli Herskovitz: Lazzaro, suo figlio Giulio con la moglie Rebecca Amster e i figli Agata[17] e Tiberio, in Romagna aveva trovato rifugio anche un’altra famiglia, quella del fratello di Alberto, Ernesto Berger, con la moglie Rella Herskovits e i figli Arnoldo ed Elisabetta. Tutte queste famiglie erano unite da legami di parentela ed avevano trovato un’altra strada per la fuga: la rete organizzata da Ottorino e Eleonora Cucchi, con alle spalle una vasta opera di aiuto a prigionieri di guerra, perseguitati politici ed ebrei. La rete dei Cucchi purtroppo proprio in quel periodo si rivelò fatale: i passatori a cui si affidavano per il passaggio del confine, per quanto lautamente pagati, decisero di realizzare un ulteriore guadagno vendendo gli ebrei ai nazifascisti: i Berger, i Kugler, gli Herskovits e un’altra famiglia di loro parenti: Ferdinando Altmann, sua moglie Margherita Herskovits, i figli Giuditta e Giuliano e i genitori di Ferdinando: Guglielmo e Gisella Schmier, con un’altra famiglia ebrea italiana: gli Sforni: Guido, la moglie Laura Tedesco Rocca, il figlio Gianfranco e la sorella di Guido, Elda Sforni, in totale 27 persone, furono tutte arrestate al valico di Cremenaga, nei giorni 1, 2, 3 e 4 maggio 1944. Furono tutti deportati ad Auschwitz. Si salvarono solo Elena Anna Kugler, Agata Herskovits e Ferdinando Altmann[18].
[1] Cfr. Gruppo di cultura di Ponte San Pietro, a cura di, Giorni della paura, bombardamenti e rifugi a Ponte San Pietro nella Seconda Guerra Mondiale, Comune di Ponte San Pietro; reperibile sul sito https://docplayer.it/4954444-I-bombardamenti-su-ponte-san-pietro.html.
[2] Paolo Aresi, La mamma che salvò cinquanta ebrei, L’Eco di Bergamo, 27 gennaio 2002.
[3] Cfr. Federico Falk a cura di, Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali – Gli ebrei residenti nella provincia del Carnaro negli anni 1915 – 1945, https://www.bh.org.il/jewish-spotlight/fiume/. Le notizie anagrafiche relative agli ebrei citati sono tratte da questo sito.
[4] Uno di questi era Angiolello Cattaneo che nell’articolo sopra citato racconta: “Nel 1943 avrei dovuto partire anch’io militare, dovevo entrare nell’esercito repubblichino, ma non ne avevo alcuna intenzione, così fuggii anch’io, raggiunsi la Svizzera e venni ospitato in un campo. Dormivamo in baracche di legno, ogni baracca era dotata di una buona stufa, nella mensa il cibo non mancava mai. L’unico problema era la noia perché non c’era mai molto da fare. Ricordo che andavamo a spaccare la legna”.
[5] Cfr. Israel Gutman, Bracha Rivlin, a cura di, edizione italiana di Liliana Picciotto, I Giusti d’Italia, i non ebrei che salvarono gli ebrei 1943-1945, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 2006, p. 96.
[6] Paolo Aresi, La mamma che salvò cinquanta ebrei, op. cit.
[7] Cfr. Federico Falk a cura di, Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, op. cit.
[8] Paolo Aresi, La mamma che salvò cinquanta ebrei, op. cit.
[9] Aurelio Tambini e la sua famiglia sono stati riconosciuti “Giusti fra le Nazioni” il 28 aprile 1974.
[10] Ezechiele Maccacaro, nato a Verona il 10 aprile 1897, prestò servizio in varie località dell’Emilia Romagna e della bassa lombarda, fra cui negli anni della guerra Bagnacavallo. È stato posto in congedo nel 1952; è morto a Negrar (VR) il 6 aprile 1981. Notiziario Storico dell’Arma dei Carabinieri, n. 4 anno II, 2017, p. 34.
[11] Antonio Dalla Valle è stato riconosciuto “Giusto fra le nazioni” il 28 aprile 1974.
[12] Le notizie su Bagnacavallo sono tratte da: Aldo Viroli, Antonia Galandauer è tornata con la famiglia a Lugo e Bagnacavallo. Il ponte da Fiume verso la libertà, La Voce di Romagna, 3 novembre 2012, edizione on line
http://www.mlhistria.altervista.org/storiaecultura/testiedocumenti/articoligiornali/galandauer.htm
[13] Cfr. Federico Falk a cura di, Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, op. cit.
[14] Paolo Aresi, La mamma che salvò cinquanta ebrei, op. cit.
[15] Cfr. Federico Falk a cura di, Le comunità israelitiche di Fiume e Abbazia tra le due guerre mondiali, op. cit. le notizie anagrafiche relative alle altre persone citate sono tratte dallo stesso sito.
[16] Elena Anna Kugler, più nota come Hanna Kugler Weiss, ha raccontato della fuga e della prigionia in: Racconta, Fiume-Birkenau-Israele, Giuntina, Firenze 2006, pp. 26-27. Hanna, dopo la guerra emigrò in Israele dove è morta nel 2017. Il 27 gennaio 2007 era presente a Bergamo, presso la biblioteca Tiraboschi, in occasione della presentazione del suo libro e della traduzione italiana del testo di Danuta Czech, Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, 1939-1945, traduzione italiana di Gianluca Piccinini, Mimesis edizioni, Milano 2006, testo fondamentale per la conoscenza della storia di Auschwitz, tradotto dall’intellettuale bergamasco Gianluca Piccinini, prematuramente scomparso il 7 aprile 2012 all’età di 57 anni.
[17] Agata Herskovits, più nota come Goti Bauer, una delle superstiti di Auschwitz, ha descritto le tremende vicissitudini sopportate nel Lager di sterminio in una testimonianza pubblicata nel libro di Teodoro Morgani … Quarant’anni dopo, Carucci Editore, Roma, 1986 e in un’intervista riportata nel libro di Daniela Padoan, Come una rana d’inverno – conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2004.
[18] Ferdinando Altmann ha rilasciato al CDEC una dichiarazione sulla sua prigionia ad Auschwitz consultabile online sul sito del CDEC, Vicissitudini dei singoli, busta 2, fascicolo 57; http://digital-library.cdec.it/cdec-web/storico/detail/IT-CDEC-ST0026-000123/34-ferdinando-altman-34.html.