scheda completa

Ghelfenbein Elisabetta

Elisabetta Ghelfenbein 


Bergamo – Gandino


Scheda di famiglia


Elisabetta Ghelfenbein, nata a Odessa (Russia) il 29 gennaio 1887, coniugata con Ferruccio Galmozzi, nato a Castello di Annone il 25 dicembre 1889 non ebreo; i figli non ebrei LucianoMaria RosaAndrea BorisMarcellaNicolaLisettaGianfrancoGiancarlo e Gian Maria.

(Capitoli di riferimento: L’applicazione delle leggi razziali / Fuggiaschi e clandestini)


La prima donna laureata in medicina nell’Italia unita, nel 1877 all’università di Pisa, fu un’ebrea russa originaria di Odessa: Ernestina Puritz-Manasse (l’accesso agli studi superiori alle donne, ma non all’università ordinaria, fu concesso in Russia solo nel 1878, si trattava di corsi per sole donne e solo in alcuni rami del sapere, finalizzati perlopiù a fornire personale per l’insegnamento). A Napoli si laureò un’altra donna russa: Anna Kuliscioff, una dei fondatori del partito Socialista Italiano. Questi precedenti testimoniano un legame delle giovani russe con le nostre università, dato che nella Russia degli zar forti erano le restrizioni per l’accesso alle università degli ebrei e solo nel 1911 venne concesso l’accesso alle università alle donne. Elisabetta Ghelfenbein[1] nel 1905 venne in Italia da Odessa con altre due amiche proprio per frequentare l’università di medicina, scelta coraggiosa per una donna, sia l’emigrazione che la frequenza universitaria, se si pensa che agli inizi del 1900 le donne iscritte nelle università italiane erano in tutto 250. L’impressione di coraggio e determinazione presente nella scelta dell’emigrazione con l’abbandono della famiglia è confermata dalla scelta della facoltà: medicina, di certo non comune a quell’epoca per una donna. Fu all’università di Torino che Elisabetta conobbe Ferruccio Galmozzi, brillante studente di medicina, politicamente impegnato nella FUCI[2] e vicino al movimento Popolare di don Sturzo, che sposò a Torino il 12 febbraio 1917.


Elisabetta Ghelfenbein era un’ebrea non praticante e il contatto con il vivace ambiente religioso frequentato dal fidanzato portò anche lei all’adesione alla fede cristiana. La decisione di Elisabetta di aderire al cattolicesimo fu piena e sincera, ricorda la figlia Marcella[3]:


La conversione al cattolicesimo deve essere stata molto importante nella sua vita, noi figlioli abbiamo imparato da lei tantissimo anche nel campo religioso. La sua fede così viva la trasmise a noi. I suoi insegnamenti religiosi e morali furono insieme a quelli di papà esempi per tutta la nostra vita.


Nel 1918 Elisabetta trovò lavoro presso l’ospedale del Palazzolo di Torre Boldone, Ferruccio lavorava presso l’ospedale di Bergamo già dal 1915. Elisabetta e Ferruccio ebbero nove figli: Luciano, Maria Rosa, Andrea Boris, Marcella, Nicola, Lisetta, Gianfranco, Giancarlo e Gian Maria. Il 26 gennaio 1923 la famiglia Galmozzi, si trasferì a Bergamo dove Ferruccio completò la sua carriera vincendo il concorso di primario.


Il diario della figlia Marcella Galmozzi ci fornisce il quadro di una famiglia felice, di buone condizioni economiche, perfettamente integrata nella società bergamasca, serena e di profondi sentimenti antifascisti, che vennero trasmessi nell’educazione dei figli. 


Nel 1926 i Galmozzi dovettero affrontare un profondo lutto: la perdita di tre figli: Lisetta, di meno di due anni, colpita da meningite, e i gemellini Giancarlo e Gianfranco di soli cinque mesi, colpiti da una recrudescenza dell’influenza “spagnola”[4]


La promulgazione delle leggi razziali ebbe un sicuro impatto anche sulla famiglia Galmozzi, anche se la signora Ghelfenbein era da anni cattolica e il marito, primario ospedaliero, era una persona stimata e apprezzata nell’ambito cittadino, il suo “essere ebrea” poteva diventare fonte di discriminazione per i numerosi figli, ancora studenti; Ferruccio Galmozzi fu così costretto a chiedere ufficialmente il riconoscimento della loro non appartenenza alla razza ebraica, riconoscimento concesso dal Ministero dell’interno e comunicato all’interessato il 24 maggio 1940 dal podestà di Bergamo[5].

Dopo l’occupazione tedesca e la costituzione della RSI Elisabetta Ghelfenbein aveva molti motivi per nascondersi da fascisti e tedeschi: innanzi tutto era ebrea, e già questo sarebbe bastato a metterla in pericolo di vita, suo marito Ferruccio Galmozzi era membro del CLN di Bergamo in rappresentanza della Democrazia Cristiana, dei suoi figli Andrea, che era arruolato in sanità a Milano, rimasto al suo posto, era diventato un infiltrato al servizio della resistenza, Luciano, in convalescenza all’8 settembre, era fuggito prima nella casa di campagna a Foresto Sparso e poi si era unito alle formazioni partigiane, Nicola, in età di leva, si era unito ai partigiani, pur continuando ad operare in città. Elisabetta era da tempo sfollata a Foresto con la figlia Marussia e suo figlio Ferruccio Cremaschi[6]. Il marito era rimasto a Bergamo proseguendo il suo lavoro in ospedale e l’attività clandestina, ma era preoccupato per la sicurezza della moglie: a Foresto Sparso erano conosciuti e il posto dopo l’ordine di arresto degli ebrei non appariva più sicuro[7]:


Ma finalmente tramite il nostro parroco, l’allora Mons. Benigno Carrara, fu deciso il piano. Mamma scese da Foresto in macchina con papà in una sera scura, a Bergamo rimase in incognito per due o tre giorni poi finalmente una mattina scomparve. Era il 13 dicembre. Come posso dimenticare questa data? […] Si sa quando si parte, non quando si ritorna. Quante incognite davanti. La prima tappa di mamma fu la casa del parroco ove si fermò per due o tre giorni, in attesa che una suorina delle suore Orsoline la venisse a prelevare per portarla a Gandino in un convento delle suore stesse.


La “suorina” era suor Dositea Bottani, una donna di grande fede, ma anche grande senso pratico e dai nervi saldi. Ferruccio Galmozzi era medico della Casa generalizia delle Orsoline, ma difficilmente le suore avrebbero fatto qualcosa senza l’assenso del vescovo. Probabilmente fu don Benigno Carrara ad aiutare Ferruccio ad ottenere l’assenso del vescovo Bernareggi[8] quando si rivolse alle suore Orsoline di Gandino[9], alla superiora generale madre Gesuina Seghezzi[10] e alla segretaria madre Dositea Bottani[11]:


queste senza esitazione si prestarono per l’aiuto richiesto. Esse conoscevano bene la signora, che era di casa in via Masone poiché vi aveva mandato tutti i suoi figli a frequentare le scuole elementari. Unica loro preoccupazione fu quella di ottenere l’autorizzazione dal Vescovo Bernareggi, che non oppose difficoltà al progetto di ospitare in incognito la signora Galmozzi nella casa di Gandino. I timori per il grave rischio che bisognava correre non costituivano un motivo sufficiente per rifiutare un atto di carità e la Provvidenza non avrebbe mancato di proteggere tutti. Una sensibilità genuinamente cristiana, che si lasciava guidare unicamente da ragioni di fede, ispirò la decisione delle due religiose, come ricordava madre Dositea qualche anno dopo in uno scritto al dottor Galmozzi: “Abbiamo pensato che Dio non può negare il suo aiuto ad un’opera così buona e, fidando unicamente nella sua Provvidenza, demmo risposta affermativa”.


Fu madre Dositea ad assumersi il rischio di accompagnare Elisabetta dalla stazione di Bergamo a Gandino, è lei stessa a scrivere la relazione del viaggio, in terza persona[12]


La madre segretaria sale davanti sulla stessa carrozza e siede sul sedile della stessa fila, in cima, di fronte alla fuggitiva. Con un muto segno d’intesa, a Gazzaniga scendono tutte e due e si dirigono, come due indiane, al pulmann di servizio per Gandino. Elisa prende il posto nel sedile dietro l’autista; la madre nel secondo sedile dalla parte opposta. A un tratto questa s’accorge che Elisa è inquieta e, come per diporto, le si pone innanzi tra l’autista e l’angolo di sinistra dell’automezzo. “Che c’è?” chiede chinandosi con discrezione. “C’è la compagna di Liceo di mia figlia Marussia là in fondo!”. “Tirati il cappuccio sul capo e metti gli occhiali”. Eseguisce e poi: “Ho l’impermeabile di Marussia!”. “Ma via! ce ne sono tanti altri di quel colore”. “Ma è di Gandino e scenderà con noi!”. “Non temere: io scenderò per prima e mi avvierò lentamente; tu mi seguirai svelta e mi sorpasserai. Quando giungerai alla porta del convento, farò un raschio in gola. Tu entra nell’atrio e attendimi”. Il discorso, spezzato, a segni cessa. Sono a Gandino. Ciascuna eseguisce la sua parte e … veramente finalmente! Stavolta la porta si apre e si rinchiude dietro di loro. Elisa nella sala d’aspetto ha un respiro di sollievo, seguito da un’angosciosa reazione di pianto, che la Segretaria tenta calmare. “Ditemi tutto quello che devo fare!”.


Elisabetta venne fatta passare per un’aspirante di età matura in periodo di prova, la sua clandestinità era accuratamente tutelata: la sua vera identità era sconosciuta anche alla maggior parte delle suore, solo quattro ne erano informate. A Bergamo nel frattempo amici e famigliari fecero girare la voce che la moglie del dottor Galmozzi si era rifugiata in Svizzera. Tra Elisabetta e suor Dositea nascerà una sincera amicizia durante la permanenza a Gandino, amicizia che proseguirà anche successivamente.

Elisabetta era al sicuro, ma non serena e felice: le preoccupazioni per i figli e le precauzioni di una clandestinità che viveva come umiliazione aumentarono il suo disagio e la sua ansia, come si vede da una lettera, scritta nell’arco di più giorni, alla figlia Marcella[13]:


Cara Marcella, ti scrivo dall’alto del mio… solaio. Ecco dove mi trovo oggi e non mi dispiace. Star nella stanza fredda, gelata? meglio qua. Vedo le colline, le montagne, coperte anche dalla neve e mi sembra di essere a F. […]


Sono contenta che almeno la messa la posso sentire spero tutti i giorni e fare la mia Comunione. La M.G. (Madre Generale) è molto gentile con me. Siccome il predicatore ha usurpato il mio salottino per tutto il giorno, io pranzo in quell’altro salottino (mi accendono per quel momento la stufetta elettrica) e scendo giù adagio, adagio in punta di piedi, mentre lui mangia, poi sono venuta su perché lui va dormire in una stanza vicino a me […]


Non mangio due pasti della giornata nello stesso posto, non sto due ore nel medesimo sito. Appena vedo da lontano una cuffia nera di una suora o l’abito caffè del frate, scappo. Ogni piccolo scricchiolio della porta, o un passo leggero mi fa battere il cuore forte, forte, mi fa venire le vampate alla faccia … E corri, corri povero uccelletto sperduto nella tua gabbia dorata! Qualche volta capita anche che la suora mia comincia a ridere, ridere, che finisca a ridere anche io, che poi quel riso si trasforma in un pianto dirotto e povera suora non sa come domandarmi scusa. No, non potrei lamentarmi di loro, fanno tutti per diminuire la mia brutta umiliante posizione. Non hanno colpa loro. È il destino mio così. […]


Fammi piacere dopo aver preso la nota, strappa questa lettera bruciala. Saluti e baci a Andrea, Luciano, Gian M. M-a tua.  Anche io ho detto lo stesso al Signore: ancora 100 giorni, ma non di più! Non ne posso più!


Elisabetta rimase al sicuro nel convento di Gandino fino al 7 dicembre 1944, in quei giorni alle suore Orsoline di Gandino venne affidata la bambina Adelaide Roncalli, la presunta veggente delle Ghiaie di Bonate, che il vescovo aveva deciso di mettere in un luogo sicuro, anche per evitare interventi dei tedeschi, preoccupati di un evento che poteva causare assembramenti e disordini. Al convento venivano però molti studiosi e curiosi, creando il rischio che Elisabetta potesse venire scoperta. Il 7 dicembre 1944 fu deciso quindi, per non rischiare delazioni, che era più opportuno il suo ritorno in famiglia nella casa di Foresto, dove ormai nessuno la cercava.


La fine della guerra liberò finalmente Elisabetta dal pericolo e dalle angosce per la sorte dei figli: tutti poterono rientrare a casa sani e salvi. Nicola, impegnato in una missione di trasporto di rifornimenti ad una formazione partigiana era stato arrestato dai tedeschi mentre lei era a Gandino, ma era riuscito a farsi passare per uno che si era approvvigionato alla borsa nera e, dopo qualche settimana, a farsi liberare e a tornare al suo “lavoro” in formazione.


Ferruccio Galmozzi fu nominato dopo la liberazione presidente provvisorio della Provincia, nel 1946 fu il primo eletto per numero di preferenze al Consiglio comunale di Bergamo nella lista della DC, mentre il genero Carlo Cremaschi, marito della secondogenita Marussia, fu uno dei quattro bergamaschi eletti alla Costituente. Ferruccio fu eletto sindaco, ricoprendo tale carica fino al 1956, dopo essere stato rieletto nel 1951.


Elisabetta purtroppo non visse a lungo dopo la guerra, morì il 9 agosto 1950.






[1] Elisabetta Ghelfenbein lascia Torino con il marito e si trasferisce a Torre Boldone dove aveva trovato lavoro; la famiglia si trasferisce a Bergamo il 26 gennaio 1923. Muore a Bergamo il 9 agosto 1950.


[2] Federazione Universitaria Cattolica Italiana, costituita nel XIV Congresso cattolico italiano a Fiesole (1896), dopo che l’Opera dei congressi aveva iniziato a organizzare i circoli studenteschi di azione cattolica, già sorti in varie città per iniziativa di G. Toniolo e R. Murri, e della Giovine Montagna di G. Micheli. Dopo lo scioglimento dell’Opera dei congressi (1904), la FUCI fu incoraggiata e potenziata da Benedetto XV e Pio XI, che riordinò l’Azione cattolica e assegnò come assistente centrale alla FUCI (1925-33) G.B. Montini.


[3] Cfr. Marcella Galmozzi, Spigolando nei ricordi (1925-1949), Bergamo, Centro Stampa del Comune di Bergamo, “Quaderni del Museo Storico della Città di Bergamo” n. 12, 1998, p. 25.


[4] Cfr. I funerali del piccolo Giancarlo Galmozzi, L’Eco di Bergamo 11 giugno 1926; annuncio di morte dei fratellini Lisetta e Gianfranco, 16 giugno 1926. L’influenza “spagnola”, così chiamata perché fu denunciata per prima dai giornali spagnoli, fu una vera pandemia che negli anni 1918-20 causò milioni di morti, in Italia si calcola che ne furono colpite oltre 4,5 milioni di persone con un numero di vittime calcolato fra le 375.000 e le 600.000.


[5] Cfr. Giuliana Bertacchi, Oriella della Torre, Mauro Gelfi, Razzismo di stato e razzismo quotidiano – Tra centro e periferia (1911-1945), Bergamo, Centro Stampa del comune di Bergamo, in “Quaderni del Museo Storico della Città di Bergamo” n. 19, 1999, p. 52.


[6] Maria Rosa Galmozzi, Marussia come veniva chiamata in famiglia, si era sposata a fine estate 1942 con Carlo Cremaschi, antifascista e partigiano che dopo la guerra diventerà uno dei quattro bergamaschi eletti all’Assemblea Costituente. Verrà poi eletto parlamentare nelle file della Democrazia Cristiana.


[7] Cfr. Marcella Galmozzi, Spigolando nei ricordi (1925-1949), op. cit., p. 112; anche le notizie sulla famiglia Galmozzi sono tratte dalla stessa fonte.


[8] Cfr. Barbara Curtarelli, Ho fatto il prete – Il clero di Bergamo durante l’occupazione tedesca (settembre 1943 – aprile 1945), Centro Studi Valle Imagna, Bergamo, gennaio 2018, p. 190.


[9] La storia della dottoressa Elisabetta Ghelfenbein in Galmozzi, ebrea nascosta a Gandino è inserita nella Positio super vita et virtutibus di Madre Dositea Bottani, che era, ora non più, disponibile sul sito: Orsoline Gandino, Spiritualità, Itinerari di santità, Madre Dositea Bottani, Giorno della Memoria 2015. Papa Francesco ha concesso al Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi  di emettere il decreto sulle sue virtù eroiche. Dal 25 novembre 2021 le è attribuito il titolo di “Venerabile”


[10] Domenica Seghezzi nasce a Premolo il 18 febbraio 1882, nel 1903 entra come postulante nel noviziato di Gandino. Il 21 ottobre 1904 fa la vestizione religiosa, prendendo il nome di suor Gesuina, e il 21 marzo 1906 si consacra con la professione dei voti religiosi. Dal 1926 al 1963, madre Gesuina, è al servizio dell’istituto in vari ruoli, con sempre accanto madre Dositea: consigliera generale (1926-1933), vicaria (1933-1939; 1952-1963), superiora generale (1939-1952). Muore a Bergamo il 30 marzo 1963.


[11] Maria Domenica Bottani nasce alla Pianca (San Giovanni Bianco) il 30 maggio 1896. Il 26 settembre 1913 Domenica entra come postulante nell’istituto delle Suore Orsoline di Gandino. Conseguita la maturità magistrale, il 2 ottobre 1919 diventa novizia con il nome di suor Dositea Eucaristica; il 3 ottobre 1921 emette la prima professione religiosa. Nel luglio del 1927 è eletta segretaria generale. Eletta Vicaria generale nel 1946, Dal 1952 al 1970 è superiora generale, succedendo a madre Gesuina alla guida di un istituto che conta più di 100 case in 5 nazioni. Muore il 2 settembre 1970.


[12] Positio super vita et virtutibus di Madre Dositea Bottani, op. cit.


[13] Cfr. Marcella Galmozzi, Spigolando nei Ricordi (1925-1949), op. cit. pp. 5-6. Contravvenendo alle buone regole della clandestinità, ma per fortuna nostra, la lettera non è stata distrutta.