scheda completa

Golstaub Vittorio

Vittorio Golstaub e i suoi famigliari


Albino


Scheda di famiglia


Vittorio Goldstaub, nato a Mantova il 9 luglio 1869, padre di Alberto ed Ernesta.

Alberto Goldstaub, nato a Mantova il 9 luglio 1907, la moglie Luciana Levi, nata il 27 giugno 1914 e i figli Franco, nato il 28 ottobre 1936, Giulio, nato il 3 gennaio 1940 e la figlia Emma, nata il 13 agosto 1942.

Ernesta Goldstaub, nata a Mantova il 7 febbraio 1900, residente a Milano in via Spontini 3. Ernesta era coniugata con Eugenio Bassino, non ebreo, con lei erano i due figli: Michele, nato a Milano il 20 ottobre 1934 e Vittorio, nato a Milano il 9 maggio 1938.  

(Capitoli di riferimento: Gli sfollati: nuove presenze ebree italiane nella provincia / Ebrei sfollati in provincia di Bergamo catturati in altre province e deportati / Fuggiaschi e clandestini)


Alberto Goldstaub e la sua famiglia dopo i bombardamenti del 24 e 25 ottobre 1942 erano sfollati da Milano, dove abitavano in via Pergolesi 1, portandosi ad Albino il 9 novembre 1942. A loro si era unito il padre di Alberto, Vittorio, residente a Genova. Ad Albino abitavano in un bilocale di via Oltreserio 18. L’appartamento era stato loro affittato da Giuseppe Bettinelli e dalla moglie Luisa Vecchio, proprietari dell’albergo al Ponte, presso la stazione, persone che in seguito si riveleranno importanti per i Goldstaub.


Alberto, per non lasciare la famiglia sola in paese, faceva il “pendolare” tra Albino e Milano per proseguire la sua attività, necessaria al mantenimento della famiglia. Ad aiutare Luciana era stata anche assunta una domestica, probabilmente una donna del posto: il cognome è presente nella bergamasca, questo però non era ammissibile per le leggi razziali vigenti e ne fu informata la Regia Prefettura che subito ordinò al podestà di Albino[1]


Per le disposizioni vigenti è vietato alle persone di razza ebraica avere presso di sé domestici di razza ariana. Vi prego pertanto di disporre che la signorina Valenari Eleonora di Agostino, venga subito allontanata dalla famiglia dell’ebreo Goldstaub Alberto presso cui attualmente presta servizio in qualità di domestica. Attendo assicurazione.


Possiamo immaginare come la signorina Valenari abbia gradito l’intervento del podestà in quel periodo di gravi ristrettezze economiche. Ad Albino era sfollata un’altra figlia di Vittorio: Ernesta, anch’essa residente a Milano, in via Spontini 3. Ernesta era coniugata con Eugenio Bassino, non ebreo, con lei erano i due figli Michele e Vittorio, entrambe riconosciuti non ebrei per legge.  


Alberto e i suoi erano ancora ad Albino il 30 novembre e con loro era ancora presente anche il padre Vittorio; Franco Goldstaub ha raccontato ad Angelo Calvi[2] le circostanze dell’inizio della loro clandestinità “Il nostro soggiorno ad Albino si è repentinamente interrotto allorché una sera […], il podestà di Albino venne da noi e ci disse: “Devo venire ad arrestarvi poiché ebrei, domani mattina… non fatevi trovare!”. Il commissario prefettizio, che fungeva da podestà, era l’albinese Dante Testa, probabilmente responsabile della diffusione delle notizie che consentirono anche alle altre famiglie di mettersi in salvo.


I Goldstaub, probabilmente con la mediazione del padrone di casa Giuseppe Bettinelli e di don Angelo Zois[3], parroco di Dossello, seguirono la stessa strada dei cugini Gallico. Ricorda Franco Goldstaub “Siamo fuggiti nottetempo in montagna in una frazione di cui non ricordo il nome, in una cascina nei boschi, dove già erano i nostri cugini Gallico di Mantova. II proprietario si chiamava Edoardo Nicoli, detto Barbù”.


Racconta Franco di Edoardo Nicoli “Tipo generoso, almeno con noi, ma assai spesso annebbiato dai fumi dell’alcool: si fabbricava (clandestinamente) con tanto di alambicco una potente grappa, dalla frutta della sua terra: quando era ubriaco se la prendeva con moglie e figli … mai con noi a cui ogni mattina per colazione portava polenta abbrustolita, lardo e mezzo litro della sua pregiata grappa”, e per quanto riguarda la situazione finanziaria “Non ricordiamo esattamente la situazione finanziaria, ma con molta probabilità davamo un contributo al sostentamento delle nostre famiglie[4]”. Anche Lidia Gallico racconta “mio padre partiva all’alba col Barbù in cerca di viveri e spesso ritornava con un grosso sacco di farina sulle spalle[5]”. Nicoli, contadino di montagna, non avrebbe certo potuto provvedere autonomamente al sostentamento dei sei Goldstaub e dei tre Gallico che ospitava.  


I mesi trascorsi alla casa del Barbù sono tuttora un ricordo felice per Franco “I bambini, liberi da impegni scolastici, giocavano tutto il giorno all’ aria aperta con qualsiasi tempo. II periodo passato nel bosco fu comunque per noi spensierato, immersi in una bellissima natura […] noi bambini di città, alla scoperta della natura, degli animali, delle castagne, dei funghi[6]”.


Racconta Lidia Gallico “Un giorno lo zio Vittorio partì per Genova a trovare la moglie gravemente ammalata[7]”: Emma Gallico, moglie di Vittorio era infatti rimasta a Genova con la figlia Bianca sposata con Carlo Novelli, non ebreo, che non poteva lasciare il lavoro.


Purtroppo questo periodo di serenità, benché non privo di paure per il passaggio di una pattuglia di tedeschi, è destinato ad interrompersi: fu don Angelo Zois alla fine del gennaio 1944 ad avvertirli che dovevano allontanarsi al più presto: la loro presenza in valle era stata notata e il rifugio non era più sicuro. I cugini Gallico scelsero di tentare la strada per la Svizzera e il 25 gennaio 1944 riuscirono ad attraversare il confine, i Goldstaub invece non se la sentirono, forse per timore dei rischi connessi ai frequenti tradimenti delle guide e dei respingimenti, forse perché ritenevano che i bambini non sarebbero stati in grado di affrontare le difficoltà di un aspro percorso in montagna. Decisero quindi di rientrare a Milano per poi recarsi dopo pochi giorni a Genova dove furono ospitati e nascosti nella casa in via Madre di Dio 23 da Attilio Fantoletti, falegname e marito di Marcella Sforni, una lontana parente[8].


Continua il racconto di Franco “abbiamo trascorso il resto della guerra “murati e nascosti” in una stanza, solo io bambino di otto anni uscivo a fare la spesa, con mamma solo in caso di allarme aereo per andare in rifugio… papa “murato vivo”. Quando abbastanza di recente sono stato ad Amsterdam, in visita alla casa di Anna Frank, ho pianto tanto: era la nostra storia. […] Rientrammo a Milano dopo il 25 aprile 1945[9]”.


Scheda di deportazione


Vittorio Goldstaub, nato Mantova il 9 luglio 1869. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 28 ottobre 1944.


Bianca Goldstaub, nata a Mantova il 3 luglio 1896. Liberata a Auschwitz il 27 gennaio 1945. 


I due arrestati dopo essere stati detenuti nel carcere di Genova e di Milano vengono inviati nel campo di Bolzano e da lì deportati il 24 ottobre 1944 con il convoglio n. 18 giunto ad Auschwitz il 28 ottobre 1944. 


Deportati identificati 133 di cui reduci 17, deceduti 116.


Bianca, reduce da Auschwitz, ha scritto in un memoriale le vicende della deportazione della sua famiglia, edito in poche copie dal marito.


Ernesta Goldstaub, nata a Mantova il 25 settembre 1903. Deceduta in luogo e data ignoti.


Arrestata a Milano il 10 aprile 1944, detenuta nel carcere di Milano e poi avviata a Verona e da lì deportata il 2 agosto 1944 con il convoglio n. 14 giunto ad Auschwitz il 6 agosto 1944.


Deportati identificati 246 di cui reduci 29, deceduti 217.


Ernesta e i due figli dopo l’8 settembre erano tornati a Milano. Tina, come era chiamata in famiglia, era sposata con un non ebreo, Eugenio Bassino, probabilmente anche ai suoi figli era stato riconosciuto lo status di non ebrei, i tedeschi inoltre nei primi mesi di occupazione rilasciavano i coniugi di coppie miste, forse era per questo che Tina si sentiva falsamente al sicuro e non aveva preso provvedimenti per tutelarsi. Per i fascisti italiani però non era così: se si era figli di due ebrei, non interessava sapere chi avevi sposato o di che religione eri, eri ebreo e quindi da catturare e deportare. Fu arrestata a Milano il 10 luglio 1944 e dopo essere stata detenuta nel carcere di Milano venne inviata a Verona e da lì deportata nel campo di sterminio di Auschwitz dove giunse il 2 agosto 1944. 


Il 29 ottobre, incontrò la sorella Bianca che la informò del padre. Bianca poté perlomeno rassicurare la sorella sulla sorte dei figli, che erano stati “sfollati” in montagna con i frati dell’Istituto Gonzaga di via Vitruvio di Milano, e degli altri familiari che si trovavano a Genova nascosti. Tina disse a Bianca “almeno una di noi due rimanga per i miei bambini[10]”. Secondo la sorella il giorno dopo Tina venne fatta partire “per Belsen”: si trattava della partenza per l’evacuazione del campo. Tina è deceduta in luogo ignoto il 28 febbraio 1945.


Vittorio dopo la morte della moglie si era fermato a Genova dove l’8 agosto 1944 fu arrestato assieme alla figlia Bianca[11]. Bianca, coniuge di matrimonio misto, aveva forse creduto che questo potesse darle più garanzie e non aveva ritenuto di dover osservare una rigida clandestinità, racconta Bianca[12]:


8/8/44 ore 20. Mentre conversavo con una mia vicina si presentarono 3 sgherri 2 della SS tedesca 1 repubblicano fascista sergente al pseudonimo di “Livio” chiedono i documenti e mi dichiarano in arresto. Presente c’era papà e chiedono a lui pure i documenti e alla sua dichiarazione di essere mio padre naturalmente viene dichiarato in arresto lui pure. Perquisizione per tutta la casa e intanto che sono scesa a chiamare mio marito che era uscito hanno avuto tempo di accertarsi che nessun altro familiare correligionario era nascosto in casa. Scesi da casa salimmo in automobile […] rivoltami al babbo dissi:” dove ci porteranno?” Lo sgherro che era ai lati degli sporti dell’auto in buon italiano come se la domanda fosse rivolta a lui disse: “All’impiccagione signora!”.


Vittorio e Bianca furono incarcerati a Marassi, in bracci separati. Il 15 agosto furono trasferiti a S. Vittore a Milano, in pullman: Bianca poté così rivedere il padre. A San Vittore furono rinchiusi nel V raggio che era adibito ai soli ebrei; lo stesso giorno ricevettero un panino e un vasetto di marmellata offerti, tramite un incaricato, dal card. Schuster. II papà fu adibito nei pomeriggi a innaffiare l’orto e quando passava per il corridoio una suora[13] gli offriva sempre qualcosa da mangiare; cosi facevano anche i secondini. Bianca sottolinea, in contrasto con il comportamento degli omologhi a Marassi, la solidarietà manifestata da suore e secondini. 

Un giorno esaminando il muro della cella vede con dolore graffito sull’intonaco “Giulia Gallico[14], Alice Rodriguez[15]e Tina Golstaub Bassino e segnato il giorno della partenza[16]


Bianca poté rivedere il padre solo durante il trasferimento in pullman a Bolzano, l’8 settembre 1944, Vittorio le apparve denutrito e in cattive condizioni di salute. A Bolzano ogni mattina alle sei c’era l’appello e il papà cercava di vedere la figlia al di là della rete metallica, ma un maresciallo delle SS gli intimava di stare bene a posto e con un frustino lo colpiva alle gambe a più non posso. Il trattamento del campo di transito di Bolzano, condotto principalmente dalle SS tedesche, fu solo un anticipo di quello molto più brutale e crudele praticato nel campo di sterminio. 


II 24 ottobre 1944 Vittorio e Bianca furono caricati su un treno per Auschwitz[17]:


Due carri bestiame blindati uno per gli uomini e uno per le donne. Eravamo pigiate e sdraiate a terra come le bestie. Da Bolzano ci siamo provviste di recipienti vuoti di latta per poter orinare e che versavamo dai finestrini. […] Una sera (durante una sosta per consentire ai prigionieri di effettuare i loro bisogni, ndr) finalmente ebbi occasione di vedere papà, era ridotto a un cencio.


II 28 ottobre alla mattina verso le sei arrivarono a Birkenau. Si rividero per l’ultima volta. Dopo l’appello furono separati e Vittorio Goldstaub venne subito selezionato per l’uccisione nelle camere a gas. Bianca fu invece internata nel campo[18]:

Ci accompagnarono in una sala dove ci tolsero i pochi indumenti e ci dettero un misero vestito di tela corto senza altro, tolsero le scarpe e diedero in cambio un paio di zoccoli olandesi. A me ne assegnarono un paio, senza calze. Ogni qualvolta facevo un passo rimanevano affondati nella neve e mi uscivano dai piedi. Ero disperata, piangevo, ma non c’era alcun rimedio. E quindi passammo in un’altra camera dove due tedesche avevano l’incarico di farci il numero di matricola sul braccio sinistro e col tatuaggio, ed io ebbi il numero 89099 con un triangolo segno di mezza stella sionista.


Auschwitz-Birkenau non ammetteva umanità, nemmeno la più elementare, e già il secondo giorno i nuovi arrivati lo poterono vedere in quella che era la pratica quotidiana[19]:


Nella notte stessa verso le due la sig.ra Saralvo[20] che era di salute assai cagionevole in causa di diabete acetoso e che era già assai malridotta perché proveniente da prigioni e campi italiani senza potersi curare, desiderava uscire per orinare. La capo blocco glielo proibì e vistasi nell’impossibilità di trattenersi fino al mattino scese dal letto e sporcò la stanza. Dalla … venne malamente percossa a sangue riducendola in fin di vita tanto che al mattino seguente verso le 8 io e una delle Sonnino, la Luisa[21], la portammo all’ospedale in stato comatoso e appena giunta spirò.


Alcuni giorni dopo Bianca ricevette inaspettatamente la visita della sorella Ernesta e della cugina Giulia Gallico, nel campo già da tre mesi, l’incontro poté ripetersi solo il giorno successivo quando Tina venne selezionata per essere inviata a Belsen.


Bianca rimasta nel campo si ammalò, riuscì a sfuggire alla selezione per il gas grazie all’aiuto delle compagne, ma dovette essere ricoverata in ospedale. La liberazione del campo giunse appena in tempo, Bianca era ormai allo stremo e in quelle condizioni sarebbe sopravvissuta ancora pochi giorni, ora però poteva essere assistita e curata[22]:

Io purtroppo ero disperata, piangevo, sporcavo sempre il letto, non avevo la forza di mangiare e la buona Pacifici[23] aveva il suo daffare a pulirmi e darmi da mangiare, mi imboccava come un bimbo. Intanto due medici di Trieste mi fecero prendere delle pastiglie per i disturbi della vescica che mi cagionavano delle sofferenze inaudite e gridavo giorno e notte. 


Bianca riuscì a riprendersi, ma dovettero passare alcuni mesi prima che potesse riacquistare completamente le forze. Il 28 giugno 1945 lasciò Katovice per intraprendere il lungo viaggio che, dopo molte soste in campi di ricovero russi, le avrebbe permesso di rientrare in Italia, con lei si trovavano anche Laura Levi e Primo Levi, che racconterà le vicende del ritorno verso l’Italia nel libro “La Tregua”. Il 19 ottobre 1945 finalmente il treno arrivò in Italia, Bianca giunta a Milano poté riabbracciare i suoi familiari sopravvissuti e avvisare il marito a Genova[24]:


Rimasi a Milano un mese a rimettermi in salute e curarmi giorno per giorno. La casa dove ero ospitata dai miei parenti era un via vai continuo di persone che non avevano più notizie dei loro familiari deportati.


Bianca nel suo diario racconta della morte di Elena Segre moglie di Corrado Saralvo, autore di uno dei pochi libri di memorie da Auschwitz pubblicati negli anni sessanta; non poche sono le note che Corrado riserva alla moglie, note di grande affetto e giustificata apprensione, date le sue condizioni fisiche. Da lei verrà separato dopo l’ingresso nel carcere di San Vittore, riuscirà a rivederla un’ultima volta per poche ore all’arrivo ad Auschwitz, durante l’attesa della selezione, per poi esserne separato per sempre. Doveroso parlare di Corrado in questa sede perché aveva anche un legame con Bergamo che emerge nel libro solo per un brevissimo accenno quando narra della loro cattura probabilmente a seguito di una delazione, Corrado viveva in clandestinità. Durante la perquisizione gli trovarono in casa una copia di “Italia Libera”, giornale clandestino del Partito d’azione. Dell’interrogatorio, effettuato dal maggiore Kock, riporta questa frase[25]:


Siamo al corrente della vostra attività antifascista e sappiamo dei vostri rapporti con i partigiani nel bergamasco. Ce n’è abbastanza per mandarvi a processo e per arrivare alla fucilazione.


Corrado quindi doveva aver fatto da contatto tra le formazioni partigiane Bergamasche e quelle milanesi, purtroppo nel libro non racconta altro di questo periodo: Auschwitz ha messo tutto il resto in secondo piano.


Vittorio e Ernestina non furono gli unici lutti per la famiglia Goldstaub: Zevulun Goldstaub, fratello di Vittorio, sua moglie Pasqua Basevi, e la figlia Clotilde Goldstaub furono anch’essi catturati, deportati e assassinati ad Auschwitz.






[1] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), Studi e ricerche di storia contemporanea n. 88, dicembre 2017, p. 47.


[2] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit., p. 49.


[3] Angelo Zois nato Berbenno, 14 novembre 1905, morto a Berbenno, 3 ottobre 1985. Ordinato il 21 maggio 1932. Coadiutore a Dossello di Albino dal 1935, parroco dal 1943 quando la frazione divenne parrocchia.


[4] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit. p. 50.


[5] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, Gilgamesh Edizioni, Mantova, 2016, p. 98.


[6] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit. p. 50.


[7] Cfr. Lidia Gallico, Una bambina in fuga, op. cit. p. 99.


[8] La madre di Vittorio Goldstaub era Adelaide Sforni, Marcella era quindi imparentata per parte di madre.


[9] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit. p. 52.


[10] Cfr. Angelo Calvi, La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit. p. 53.


[11] Bianca Goldstaub, era nata a Mantova il 3 luglio 1896. Le notizie sulla detenzione di Vittorio, Bianca e Ernestina Goldstaub sono tratte dalle inedite Memorie di deportazione, a stampa scritte nel 1961 da Bianca Goldstaub, stampate nel marzo 2017 a Milano in un volumetto di oltre venti pagine e inviate al Comune di Albino dal marito di Emma Goldstaub, Edmondo de Benedetti; è disponibile nella locale biblioteca, anche Angelo Calvi ne fa una efficace sintesi in La sonnotata famiglia. Ebrei ad Albino (1941-1945), op. cit. pp. 53-54.


[12] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, p. 1.


[13] Nelle carceri di Genova operavano le suore della Congregazione delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, la stessa che operava anche al carcere di San Vittore a Milano.


[14] Giulietta Gallico, nata a Mantova l’1 febbraio 1900, coniugata con Giuseppe Brugnoli. Arrestata a Varese il 22 giugno 1944 deportata ad Auschwitz il 2 agosto 1944, deceduta a Bergen Belsen dopo l’8 febbraio 1945. 


[15] Alice Ravà, nata a Venezia il 13 gennaio 1890, coniugata con Raffaele Rodriguez, arrestata a Milano il 13 giugno 1944 da tedeschi, deceduta in luogo e data ignoti.


[16] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 4.


[17] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 7.


[18] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 8.


[19] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 8.


[20] Elena Segre, nata a Torino il 25 ottobre 1904, coniugata con Corrado Saralvo, arrestata a Milano il 14 settembre 1944, deceduta ad Auschwitz.


[21] Maria Luisa Sonnino, nata a Napoli il 5 ottobre 1920, arrestata a Genova il 12 ottobre 1944, deportata ad Auschwitz il 24 ottobre 1944, deceduta a Flossemburg il 20 marzo 1945. La sua storia e quella della famiglia sono state raccontate dalla sorella Piera, sopravvissuta, in: Questo è stato, Il Saggiatore, Milano 2004. 


[22] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 13.


[23] Le deportate di cognome Pacifici sono nove, una sola è sopravvissuta: Emma Pacifici nata a Firenze l’11 settembre 1899 e arrestata a Firenze da italiani il 25 maggio 1944, deportata da Fossoli il 26 giugno 1944 ad Auschwitz dove le venne assegnato il numero di matricola: A-8486; è stata esaminata la possibilità che “la signora Pacifici” fosse indicata con il cognome del marito, ma nessuna delle mogli ebree di un Pacifici deportato è sopravvissuta alla deportazione. Emma inoltre non risulta coniugata, l’identificazione con la Pacifici del racconto è quindi molto probabile.


[24] Cfr. Bianca Goldstaub Novelli, Memorie di Deportazione, op. cit. p. 21.


[25] Corrado Saralvo, Più morti più spazio, tempo di Auschwitz, Milano, Baldini & Castoldi, 1969, p. 5 e 6.